
Pakistan, giugno 2009, Asia Naurīn Bibi è una lavoratrice agricola a giornata. Quel giorno sta lavorando alla raccolta di alcune bacche. All’improvviso esplode una lite con altre lavoratrici di religione musulmana. Il motivo? Lei, cristiana, doveva andare a prendere dell’acqua, le donne musulmane l’avrebbe respinta sostenendo che Asia, per il suo credo, non avrebbe dovuto toccare il recipiente. Pochi giorni dopo Asia Bibi viene denunciata alle autorità, avrebbe infranto la legge antiblasfemia perché nella discussione sarebbe stato offeso Maometto.
Storia da un villaggio remoto, di una donna sconosciuta, della quale forse nessuno sarebbe venuto a conoscenza, se non per il fatto che dal momento della denuncia, per Asia Bibi inizia un calvario che ha portato la sua vicenda alla ribalta internazionale. Imprigionata, ha subito violenza ed è stata condotta nel carcere di Sheikhupura. Nel 2010 una corte ha decretato in prima istanza la sua condanna a morte negando qualsiasi circostanza attenuante.
La famiglia però presentò ricorso contro la sentenza davanti l’Alta Corte di Lahore bloccando l’esecuzione. Nel dicembre 2011 una delegazione della Masihi Foundation (Mf), una ONG che si occupa dell’assistenza legale e materiale di Asia Bibi, visitò la donna in carcere. Le condizioni di igiene terribili e quelle di salute, sia fisica che psichica, critiche. Nonostante ciò la sentenza di morte venne confermata nel 2014, per essere poi di nuovo fermata l’anno successivo dalla Corte suprema che ha rimandato la decisione ad un tribunale penale.
L’8 ottobre 2018, dopo quasi 4mila giorni di prigionia, Asia Bibi si è presentata di nuovo di fronte a dei giudici chiamati ad esprimersi sull’appello presentato dai difensori, tra cui l’avvocato musulmano Saiful Mulook. Per i legali l’inchiesta era stata viziata dal pregiudizio e le prove non erano evidenti. Considerazioni che hanno spinto il tribunale ad un ennesimo rinvio, forse entro questo mese. Asia Bibi, che è madre di 5 figli, resta dunque in carcere, ma viva. Rimane in isolamento, che paradossalmente rappresenta anche una forma di salvaguardia viste le minacce di estremisti islamici e la taglia di 500mila rupie che questa organizzazioni hanno messo sulla sua testa.
E il caso di Asia Bibi è diventato vetrina di ciò che accade in Pakistan. Il paese infatti continua ad essere lacerato dalle violenze di matrice religiosa, prova ne è stato l’assassinio di Salman Taseer, il governatore musulmano del Punjab che si era espresso in favore di Bibi, assassinato nel 2011 una guardia del corpo. Stessa sorte toccata pochi mesi dopo a Shabaz Bhatti, cristiano che era diventato ministro per i Diritti delle Minoranze.
Se la sentenza di morte venisse confermata non rimarrebbe altro che appellarsi a Imran Khan. L’ex campione di cricket che guida un governo, con l’appoggio dei militari, insediatosi solo il 9 settembre e che si è pronunciato in pubblico contro la legge sulla blasfemia. Sembra poco ma in Pakistan esistono partiti estremisti come il Tehreek-e-Labbaik (Tlp) che nelle ultime elezioni ha difeso la legge intimando al governo di non cedere alla pressione delle ONG, “nemiche del Paese” o dell’Unione europea. In caso contrario. ‘conseguenze immediate’.
Sulla decisione del tribunale peseranno probabilmente anche altri elementi. Innanzitutto Asia Bibi sarebbe la prima donna cristiana ad essere giustiziata in Pakistan, e ciò sottoporrebbe il Paese ad un isolamento forse non sostenibile. Proprio nel momento in cui invece avrebbe bisogno di sostegno, soprattutto dal punto di vista economico. Il debito contratto in particolar modo nei confronti della Cina sta strozzando Islamabad, una situazione tale da far pensare ad un prossimo intervento del Fondo Monetario Internazionale. Ciò non sarebbe possibile senza l’intercessione degli Stati Uniti, alleati in quello scacchiere geopolitico ma diffidenti storicamente, sul percorso della infiltrazione afghane e sulla ospitalità data ad Osama Bil Laden, sino all’operazione Usa che lo uccide.