
Brasile ostaggio di diverse violenze. Il candidato presidenziale Jair Bolsonaro ricoverato per le pugnalate con cui è stato colpito a Juiz de Fora, giovedì 6 settembre. «Fuciliamo tutti quelli di sinistra», aveva detto in settimana lo stesso Bolsonaro, che adesso rischia la vita prima delle presidenza. Istigazione politica alla violenza del candidato presidente che fascista lo è e non lo nega. «Chi semina odio raccoglie tempesta», risponde Dilma Rousseff, ex presidente di sinistra e quindi, per Bolsonaro, ‘candidata alla fucilazione’, lei che aveva già assaggiato carcere a torture di precedenti fascismi militari.
Luiz Inácio Lula da Silva, ex presidente, bandiera della sinistra brasiliana, in carcere per corruzione in attesa di altri gradi di giudizio, impedito a candidarsi da presidente certamente vincente. Candidato del fronte opposto, destinato a sua volta a vincere per impedimento giudiziario del contendente, fermato a coltellate. Tanta, troppa violenza nel Brasile in crisi. Bolsonaro aveva proposto di «fucilare la petralhada», termine spregiativo con cui la destra chiama l’elettorato di sinistra. Ma c’è ben altro attorno.
Ogni giorno, in Brasile, si registrano 153 morti per omicidio. Nell’Atlante della Violenza 2018 di Ipea e del Fórum Brasileiro de Segurança Pública, il record di 62.517 morti nel 2016. Trenta volte superiore alla media europea. Le cose non migliorano quando si parla di armi. Secondo uno studio pubblicato dal Journal of the American Medical Association, nel 2016 il Brasile è stato responsabile del 25% delle morti causate da armi da fuoco.
Tra 2003 e 2011, mondo stupito del boum economico del Brasile, che in otto anni sembrava aver trovato la formula per coniugare le sue immense ricchezze territoriali e materiali con la crescita economica e con la redistribuzione della ricchezza. Gi anni del ‘lulismo’ che aveva spinto l’ondata della sinistra latinoamericana. Riduzione della povertà e delle disuguaglianze, crescita della classe media, il rispetto internazionale. Lula intoccabile, lasciò il Paese alla sua delfina, Dilma Rousseff, con un’approvazione dell’83% e un’eredità politica che si pensava infrangibile. Erano gli anni dei BRICS, le economie emergenti di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
Poi, la crisi, proprio nell’anno del mondiale casalingo. La Cina frenava, il prezzo delle materie prime crolla e l’intero sistema latinoamericano basato sulle esportazioni implode. Il sistema Brasile, si mostra molto più fragile del previsto. Lula, Rousseff e i partiti che hanno sostenuto i loro governi non sono stati capaci di vedere oltre il periodo di prosperità.
Il “consenso brasiliano”, compromesso sostenuto dalle parti sociali e politiche fino che l’economia cresceva, si è sfalda rapidamente. Con il rallentamento dell’economia vengono a mancare gli aiuti alla popolazione. Finiti i soldi, è finita la luna di miele tra il Partido dos Trabalhadores (PT) e il suo enorme bacino di voti. In questo clima bollente, il Brasile ha dovuto fare i conti con impensabili scandali di corruzione, e azioni giudiziarie in clima da stadio.
Cade Dilma Rousseff, galera preventiva per Lula, ma la corruzione accomuna tutti i settori di una società in cui il problema della disuguaglianza non è mai stato veramente risolto. Gli scandali hanno minato l’intera classe dirigente. Politici come Lula e Rousseff trasformati in criminali, i partiti in macchine per fare soldi facili sulle spalle dei cittadini, e vincono qualunquismo e populismo. Vince l’estremista Bolsonaro. Sino alle coltellate del 6 settembre. Su quale Brasile di prepara, nessuna risposta in vista.