
Ungheria modello pericoloso. Tra le due guerre mondiali l’Ungheria fu certamente uno dei paesi più strani d’Europa. Ufficialmente era un regno che rivendicava un’eredità che non poteva più esigere da un impero scomparso. Non esisteva nemmeno un re, anche se a regnare ‘in suo nome’ c’era un reggente. A sua volta il reggente era un ammiraglio che continuava ad indossare l’uniforme di una marina a sua volta scomparsa, e che governava un paese privo di mare e quindi di una flotta. Ironia a parte il regime ungherese era però dittatoriale e autoritario, sostenuto da pochi grandi proprietari terrieri, nazionalista estremo segnato da sentimenti antisemiti, vicino nei fatti e nei comportamenti all’Italia fascista e alla Germania nazista di cui divenne alleato nel corso della Seconda Guerra mondiale proprio per riappropriarsi dei territori perduti.
Come spesso accade nei regimi autoritari esisteva anche una diffusa corruzione, per quanto coperta ipocritamente, che ogni tanto lasciva esplodere scandali economici e finanziari. A furbeggiare non solo cricche di disinvolti affaristi, ma spesso autorevoli membri del governo che escogitavano macchinazioni incredibili. Uno degli episodi più celebri a metà anni Venti, quando si scoprì che, per pagare il debito di guerra, la tipografia geografica militare ungherese stampava banconote francesi di grosso taglio false. Uno dei primi arrestati fu un alto ufficiale dell’esercito che riceveva da Budapest per posta i plichi con le banconote da spacciare. Lo scandalo si allargò e fu arrestato anche il mittente e poiché si trattava del cameriere di un noto aristocratico, già membro del governo, sorsero ben altri sospetti. Nel frattempo molti politici nazionalisti avevano però preso le difese dei falsari definendoli ‘patrioti’.
Nonostante episodi come questo al limite del grottesco, dopo la crisi del 1929 pesante per tutta l’Europa centrale, il regime divenne sempre più autoritario e razzista. Dopo aver impostato una riforma dell’università basata sul bilanciamento delle iscrizioni tra le diverse componenti etniche del paese, risultò che agli ebrei -circa il 20% della popolazione- spettava solo il 6% delle iscrizioni. Nel 1938 fu adottata una legislazione dichiaratamente antisemita che avrebbe aperto la strada alla persecuzione e alla deportazione. Sull’Europa intanto cominciavano a spirare venti di guerra e anche in questa situazione il regime agì con grande spregiudicatezza per difendere i propri interessi, rischiando persino di compromettere le relazioni con la Germania nazista. Alla disgregazione della Cecoslovacchia occupata da Hitler, gli ungheresi occuparono a loro volta parte dell’attuale Slovacchia e la Rutenia sub carpatica, estendendo così i loro confini sino alla Polonia.
Non soddisfatti di queste occupazioni territoriali nel 1941, dopo l’attacco italo-tedesco alla Iugoslavia, fu occupata la Vojvodina (parte nord dell’attuale Serbia) dove viveva una parte di popolazione ungherese e il 27 giugno, dopo che le avanguardie tedesche avevano varcato i confini russi, fu dichiarata guerra all’Unione Sovietica. L’illusione di rivestire un ruolo di potenza europea durò però poco. Nella battaglia intorno a Stalingrado l’armata ungherese subì una pesante sconfitta. L’ammiraglio Horthy pensò tardivamente ad una pace separata per salvare il salvabile, ma un colpo di stato organizzato dai servizi tedeschi insediò al suo posto uno dei capi di un partito di estrema destra che era una diretta emanazione del nazismo. Alla fine di ottobre del 1944 cominciò l’assedio di Budapest che si concluse tra le ultime distruzioni della guerra e le più tragiche deportazioni di ebrei nel gennaio 1945.
Tra i pochissimi che intervennero a salvare gli ebrei ungheresi dallo sterminio -oltre al famoso caso dell’italiano Perlasca- vi fu però un giurista colto e cosmopolita che aveva sempre guardato criticamente il regime scrivendo pagine di grande lucidità sulla storia dell’Ungheria e dei Balcani. István Bibó sopravvisse alla guerra e rimase nell’ombra fino al 1956, la rivolta antosovietica ungherese, quando il governo di Imre Nagy lo nominò ministro. Il suo incarico durò un giorno in tutto, e fu catturato con pochissimi altri nella sede del parlamento da dove si era rifiutato di fuggire. Scampato alla pena capitale per l’intervento di varie personalità internazionali, uscì dal carcere a metà degli anni Sessanta, e da allora si batté per riaffermare i diritti umani in Ungheria col sostegno di Jean-Paul Sartre. Dimenticato da tutti morì nel 1979 e probabilmente fu l’ultima autentica voce critica della cultura ungherese del Novecento.