Il bisogno di azzerare tutto e il laboratorio di 20 anni fa

Qualche giorno fa Andrea Porcheddu, giornalista culturale che stimo, ha pubblicato un ricordo di tanti tanti anni fa, oltre venti se non sbaglio. L’immagine da lui lanciata sui social ritrae la vecchia copertina, semplice e struggente, di una rivista. Un sole stilizzato fantastico, un titolo per raccontare il percorso, Teatro Laboratorio. Una serie di firme, in ordine alfabetico: Ambrosino, Berti, Bianchi, Cipriani, De Berardinis, Leonardi, Lucenti, Mercante, Paci, Peruzzi, Porcheddu, Scarani.

Un’intuizione visionaria, che in quegli anni sul finire del millennio, si poggiava sul piano obliquo di ciò che sarebbe stato bello e necessario. Un’idea fuori dal tempo, che nel tempo ha acquistato un senso più definito ed evidente. Perché in quella fase storica serviva uscire dalle logiche – che sembravano ferree e imperturbabili – delle redazioni, della narrazione culturale delegata a pochi e intoccabili? Perché coinvolgere giovani virgulti del giornalismo, artisti e poeti, critici e scrittori, spalancando le porte e le finestre, per far entrare aria nuova, buona e vita? Fuori da ogni format. Da intellettualismi sprezzanti e mediocrità scintillanti.

Per me una ragione era evidente. Furono quelli i primi esperimenti di un progetto che dura ormai da anni, Coltivare cultura, che ha preso sicuramente le mosse da un concetto bello e forte, espresso da Leo de Berardinis con una chiarezza profetica: azzerare tutto.
Azzerare tutto e ripartire dalla semplicità, dalle piccole cose, dalle capacità di costruire cultura con uno spirito diverso, meno elitario, non come supporto a operazioni finanziarie e a baracconi di marketing. Cultura sui territori, per rendere fertile l’abitare.

Artisti, narratori, attivisti tutti dalla stessa parte.

Per evitare di delegare a critici, curatori seriali, assessori, fenomeni mediatici, la nostra storia, la passione; consegnando nelle mani dei nuovi ricchi potenti le arti e la bellezza. Per riconnettere il passato alla contemporaneità, fuori dalle logiche del mercato che niente hanno a che fare con la cultura, nel cuore delle nostre città, dei nostri luoghi dell’abitare, civile e libero.

Dopo la magia di quelle esperienze, Teatro Laboratorio, Novecento e Mille, a Santarcangelo, a Bologna a Salerno, quello stesso spirito laboratoriale è arrivato a Palermo, con Tribù Astratte, e poi ancora – costruendo spazi di riflessione e progetti editoriali per una democrazia dell’informazione – in Sardegna, nei quotidiani e poi, lungo i sentieri esplorativi di Isola art center, di Emergenze, fino ad oggi che sono ancora più radicale. E a venti anni di distanza credo fortemente nell’azzerare tutto del poeta visionario Leo.

Credo che l’unica speranza sia legata al recupero profondo del nostro abitare poetico, depurandosi da cinismo del tempo che si ripercuote sui nostri giorni con il suo carico di ignoranza e tracotanza, di indifferenza e sottovalutazione (era tutto già evidente venti anni fa). Comprendere dove poggiamo i piedi e capire chi ci sta sottraendo – spesso col sorriso sulle labbra e nel plauso generale –porzioni di territorio, di agire culturale e sociale, instaurando una dittatura dell’ovvio, dello scintillante e dell’inutile incomprensibile.

Il barbiere maoista alchimista suggerisce una chiosa: hanno successo queste operazioni di cultura coltivata? Vecchio provocatore sovversivo, penso. Già, il successo. Non è questo forse uno degli elementi della decadenza? Ragionare esclusivamente attraverso la lente della considerazione mediatica, del valore economico, della prepotenza del marketing ogni aspetto della nostra vita a che cosa è servito? A rendere migliore il nostro abitare civile? O a farci diventare degli imbecilli, obnubilati dalla ricchezza e dal potere enorme della ricchezza come esibizione di valore.

Sicuramente è servito a perdere di vista il lavoro e il rigore, la passione e l’attenzione, la fatica del fare del pensiero un’azione. Qualcun altro lo farà per noi, con sfarzo e senza troppa poesia. Con ricaduta zero sulla cultura dei territori.

Sottrarsi è già una forma sovversiva.
Restare dall’altra parte di questa linea gotica è una scelta di libertà e bellezza. Vuol dire coltivare il seme della libertà e del senso critico, pensare che ogni uomo possa essere un artista, secondo gli insegnamenti di Joseph Beuys, e non solamente un fruitore di qualche cosa che riempie gli occhi di qualcosa che non crea radice, non rafforza il terreno, ma si monta, si smonta e tutto resta come prima. Anzi, peggio. Perché spesso dove passa questa forma culturale di prepotenza non cresce più l’erba del sapere.

Ha successo? Non è importante. Quando il seme è sotto la terra è vita. Diventerà una piantina, un albero, un fiore, chissà. La vita che continua, nonostante tutto, in un agire umano, con senso critico e civile, senza riflettori dei media ma con passione, cura e attenzione, è un successo. Se una speranza di futuro c’è, è in questa manciata di semi anarchici e poetici. Non nel supermercato dei prodotti preconfezionati di una cultura tossica.

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