
Attacco Usa all’«ayatollaheconomy». Un tweet di Donald Trump che ha messo in allarme il mondo. Contro il presidente iraniano Rouhani. In tempi più seri, quasi l’anticamera di una guerra: «Non minacciate mai più gli Stati Uniti o subirete conseguenze come pochi nella storia ne hanno sofferte…». A rincarare la dose di offese e provocazione, il segretario di stato Mike Pompeo per affermare che la Guida Suprema Alì Khamenei ha un ‘fondo speculativo segreto’ da 95 miliardi di dollari, «come i mafiosi».
Se uno è caratteriale, l’altro è palesemente bugiardo visto che quel ‘capitale segreto’, è noto a tutti.
«Si tratta del valore degli asset gestiti dalla Setad, una delle Bonyad, le fondazioni esentasse che amministrano gran parte dell’economia iraniana dopo la rivoluzione del 1979», spiga Alberto Negri, decenni al Sole24ore, oggi su Il Manifesto.
Uno sguardo sulla «ayatollah economy» aiuta a capire malizia altrui. Classico, da manuale, l’insistere su un vertice cattivo (o mafioso o ladro) che affama il popolo. Con i suoi attacchi Washington punta sul cambio di regime. I disagi reali che tu provochi, la caduta del rial sul dollaro ad esempio, che fa scattare le proteste popolari e del bazaar, un tempo storico sostenitore dei religiosi al potere. Ma se in passato gli iraniani chiedevano maggiori diritti, oggi protestano per la corruzione, il ritardo dei salari, la svalutazione del rial.
Comunque, conti in tasca loro grazie a Negri.
«La Setad di Khamenei, ovvero “Setad Ejraiye Farmane Hazrate Imam” (Sede per l’esecuzione degli ordini dell’Imam), fu costituita nel 1989 dall’Imam Khomeini, con il compito di gestire le proprietà sequestrate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro l’Iraq (un milione tra morti e invalidi)».
Percorrendo la storia dallo Shah a Khomeini, scopriamo che la Setad, che doveva servire per l’emergenza del terribile dopoguerra e per la transizione dai privilegi della corte dei Palhevi, nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare che ha acquistato partecipazioni in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, eccetera. I numeri sono quelli citati da Pompeo, segreti soltanto per la Cia? Oltre la Seted, le Bonyad, le Fondazioni i cui utili non sono sottoposti a prelievo fiscale, sono il cuore dell’economia: «detengono circa il 50% del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche».
I Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, impegnati in Iraq e in Siria e a sostenere gli Hezbollah libanesi, hanno di fato il controllo di una loto fetta di economia. Negli otto anni di presidenza di Ahmadinejad, ad esempio, le Guardie hanno ottenuto lo sfruttamento di alcuni giacimenti di gas a South Pars, la più grande riserva del mondo (per loro 120 miliardi di dollari valutava l’economista Said Leylaz, o la compagnia telefonica statale (8 miliardi di dollari) .
«Ayatollah e la Pasdaran Economy» delle Fondazioni è la spina dorsale del potere, hanno fini istituzionali caritatevoli e di assistenza ma non rinunciano ai profitti, coinvolgendo più o meno direttamente milioni di iraniani, essenziali nella fabbrica del consenso.
Le sanzioni Usa e l’Europa. E il rischio di regalare questo Paese e il suo petrolio, oltre che all’ala militare dei Pasdaran, a Cina e India, i due maggiori clienti di Teheran (l’Italia è al terzo posto).
Ancora Alberto Negri a portarci nel mondo di una economia rivoluzionaria, e per giunta islamica.
«In Iran ci sono circa 80mila tra moschee, templi e istituzioni religiose che amministrano terre e imprese come facevano i monasteri nel Medioevo europeo, quando la Chiesa faceva concorrenza in tutti i campi al potere temporale».
-A Mashad la Fondazione Reza, sorta intorno al famoso santuario dell’Ottavo Imam, fattura il 7% del Pil iraniano e tiene in pugno l’economia del Khorassan;
-la Bonyad degli Oppressi (Mostazafan Foundation), ha un volume d’affari stimato oltre 12 miliardi di dollari l’anno,
-la Bonyad Shaid (Fondazione dei Martiri) controlla un centinaio di società e alla Borsa di Teheran il 60% della capitalizzazione è costituito da compagnie che ruotano intorno all’ayatollah economy.
Uscire dall’economia rivoluzionaria del primo khomeinismo, è la sfida in cui ha fallito finora il presidente Rohani, un pragmatico nel mirino dei fondamentalisti. Ma ben oltre l’economia, «Colpire al cuore questo sistema, con un mix di azioni economiche e destabilizzanti, è l’obiettivo di Usa, Israele e Arabia Saudita -sostiene Alberto Negri- ognuno con le armi che ha in mano, dalle sanzioni alla finanza, dalla produzione all’export di petrolio, alle incursioni militari. Non è solo una questione economica ma di sicurezza per tutto il Medio Oriente e l’Europa: le conseguenze non le pagherà solo Teheran, come minaccia Trump, ma anche noi».
Farian Sabahi da Teheran: «Se nel 1979 servivano 70 rial per comprare un dollaro americano, questa settimana nelle vie del centro di Teheran i cambia valute chiedevano fino a 75mila rial a fronte di un dollaro». Gli iraniani, apprendiamo, oggi protestano per la corruzione e l’incompetenza di chi ha in mano le chiavi del potere, a confermarci che tutto il mondo è Paese, ma il regime iraniano non è però sull’orlo del collasso, ci dicono gli esperti.
Con due diversi scenari preoccupanti con l’insistere delle sanzioni Usa: il prevalere dei militari, in particolare dei pasdaran, oppure la vittoria elettorale dei falchi, modello Ahmadinejad, l’ex presidente, e un ritorno alle mobilitazioni delle piazze a urlare slogan contro gli Stati Uniti.