
Italia via da Kabul come promesso? La politica estera non si fa gridando, e anche le promesse elettorali sfumano nei tempi delle mediazioni spesso segrete e del possibile non sempre dichiarato. Ad esempio l’Italia rispetto alla missione militare in Afghanistan, 900 militari a rischio e a tanti soldi, che qualcuno oggi al governo aveva promesso sarebbero stati impiegati meglio altrove.
Maliziosamente attenti Giuliano Battiston ed Emanuele Giordana che, sul Manifesto, annotano dell’incontro tra Enzo Moavero Milanesi, ministro degli esteri e lo Chief Executive del governo afghano, Abdullah Abdullah a Roma per una riunione del World Food Programme. Applausi per la tregua di fine ramadan, ma sulla nostra intenzione di andarcene?
Quando il ministro Moavero ha incontrato a Roma il segretario generale della Nato, Stoltenberg, risulta abbia voluto sottolineare l’impegno l’Italia, quinto contributore al bilancio della Nato: «uomini, mezzi e risorse nelle operazioni Nato». Riferimento nominale, «Afghanistan e Kosovo».
Per fare di più, in termini di bilancio come chiede il patron Nato Donald Trump, e per fare di meno come ricordato sopra? Leggiamo che il ministro avrebbe sottolineato, «come la tendenza alla crescita delle spese militari si vada consolidando». Splendido esempio del dire quando preferisci non farti capire. Spendiamo a continueremo a spendere di più per la difesa.
L’amico Emanuele Giordana va a ripescare nel lontano maggio 2013, parte della attuale compagine governativa appena eletta in parlamento. Una mozione che chiedeva il ritiro delle truppe italiane e più cooperazione civile nel mondo, a firma Carlo Sibilia, Manlio Di Stefano e Alessandro di Battista.
Evviva, visto che adesso, salvo Di Battista defilato negli Stati Uniti, Sibilia è sottosegretario agli Interni e Di Stefano è sottosegretario agli Esteri con delega alla cooperazione. Va anche detto che al momento della fiducia al governo, Di Stefano ha ribadito la necessità del ritiro, ma non ce n’è traccia nella posizione governativa.
Né nella dichiarazione di Moavero né in quella del ministro della Difesa Trenta troviamo traccia di allentamento di impegno prossimi futuri. Infatti il doppio Abdullah, in un’intervista a RaiNews24, ha ringraziato il nostro governo per il sostegno militare con il secondo contingente più numeroso, rischiando confusione tra ministra Trenta e ministra Pinotti, per non parlare di Moavero Milani alle prese con l’ombra evanescente di Angelino Alfano.
Archiviati gli annunci e le richieste di un tempo, proprio quando in Afghanistan, per la prima volta da anni, si è aperta una finestra politica inedita, una tregua vera e partecipata a livello popolare, “uno spazio di manovra per trovare finalmente una soluzione negoziata al conflitto”, scrive Giuliano Battiston .
Azzardata dal presidente Ghani, la tregua ha costretto i Talebani a deporre le armi per tre giorni. «Tre giorni in cui il nemico, fin qui guardato dal mirino di un fucile, è diventato persona in carne e ossa. In quasi tutte le province ci sono stati eventi di fraternizzazione tra barbuti da una parte e soldati e funzionari governativi dall’altra: dall’Helmand a Kabul, da Nangarhar a Kunduz, da Ghazni a Takhar.
In qualche provincia alcuni Talebani di basso e medio livello, contravvenendo alle direttive della leadership, chiedono il prolungamento della tregua».
Sempre nel racconto di Battiston e Giordana: «Succede perfino nel distretto di Urgun nella provincia di Paktika, in una zona controllata dalle rete Haqqani, la fazione stragista e oltranzista degli studenti coranici. Il negoziato vero è ancora lontano e non mancano i rischi, ma i segnali recenti vanno incoraggiati.
Per farlo, occorrerebbe più diplomazia. Quella a cui il governo italiano sembra aver rinunciato per mettersi sugli attenti. Una perfetta continuità».