Vivi nel virtuale? I paraculi ti asfaltano nel mondo reale

Mi sembra che questa rubrica, Polemos, stia costruendo la sua strada, riga dopo riga. In un incedere di scelte e posizioni eretiche, di dialoghi e riflessioni che camminano sul filo di un funambolo. Non si tratta di perdere la bussola, ma di guardare le stelle per tracciare la rotta. Oltre ogni schema rassicurante, perché a forza di restare imbrigliati nel buon senso comune siamo arrivati al punto in cui siamo; fuori dai binari del buon senso mediatico e da tutto ciò che sembra impossibile che non ci sia. E che invece è superfluo nel migliore dei casi. Nocivo quasi sempre.

Così le narrazioni che ci piovono addosso da ogni media e social. Talvolta tossiche, talmente tossiche da dare assuefazione, da creare un incantamento dei sensi che strappa via la vita dalla visione della vita, cancella la realtà distorcendone i tratti per iperrealismo, addormenta di un sogno che ha tutte le emozioni necessarie per non destarsi: la rabbia, la lotta, la gioia, il piacere, la conoscenza di tutto come se fosse niente.

Wake up. Così cominciava un film lungimirante di tanti anni fa. Svegliati, lascia perdere quello che è vita virtuale, dalle il giusto peso, e torna al pensiero critico, al camminare libero che è sempre sovversivo, al sentiero di montagna, ai profumi di quello che è vero. Anche al cattivo odore, alla fatica, alla violenza. Ma con coraggio e dissenso, non annichiliti chattando, né discutendo del niente sotto vuoto spinto, ma prendendo per mano i lembi dell’esistenza che sono a portata di mano.

Ragiono così, a briglia sciolta e ringrazio chi è arrivato fino a questa riga senza perdersi d’animo, senza cliccare via.

La cura è semplice. Per esempio il telefonino. Avendo passato un tempo in cui non potevo farne a meno, costretto per ruolo professionale ad essere sempre raggiungibile, mi sono reso conto di quanta pulizia del cuore possieda il fatto di non dipenderne. Di non averne l’assillo. Di non ritenere che l’essere sempre a portata di telefono sia un bene. Talvolta è meglio eclissarsi, lasciare che il silenzio prenda spazio, ignorare le pressioni di un sistema fatto da una montagna di regole di comportamento, spesso scemotte, e obblighi di inutilità.

Stessa cosa per i social. Avendo lavorato a un progetto online stavano diventando un’ossessione. Posizionamento, clic, tecniche acchiappa-gonzi. La libertà vuol dire non curarsene, usarne i vantaggi senza sottostare alla cafonate e alle infinite discussioni da superesperti di tutto su tutto, per l’appunto.

Quando uno è in quel girone infernale non se ne accorge, passa il suo tempo, spende la sua energia a disquisire su cose che non muovono una sola virgola nella realtà. Mentre fuori il mondo procede, i paraculi fanno i paraculi, i militari fanno guerre, i ricchi brindano alla faccia dei milioni di coglioni ossessionati dalle discussioni in rete sulla ravafava di turno, i poveri sono sempre più poveri. E così via, in questa finzione di politica e di vita che scorre sui social come fosse un film.

Appena ti fermi e spegni tv e pc, riscopri quello che ti sei perso negli anni. E contemporaneamente ti accorgi di quanto sia difficile, sempre più difficile, interagire con gli essere umani, discutere su questioni reali, mettere in piedi un progetto che agisca sul territorio e che non scopiazzi qualche minchiata già vista in rete o in città orripilanti.

Con questo non voglio dire di abbandonare tutto (non sarebbe manco male), ma di dare il giusto peso. I social servono per seguire lavori belli di persone belle, per capire che cosa fanno gli amici a teatro, per i saluti e le foto, ma non sono la vita. La vita è quella che ci scorre dalle mani mentre perdiamo tempo, mentre ci costruiscono intorno un mondo di muri e di ferocia, mentre ogni imbecille pensa di aver il diritto di prepotenza sugli altri.

Cito il Gatto Randagio di Francesca de Carolis che scrive una rubrica proprio dopo la mia: “Pensando al genius loci… l’anima dei luoghi del sentire pagano, di cui tempo fa lessi in un bel libro di James Hillman, affascinante invito a risvegliarsi dall’anestesia che ci impedisce di percepire la vita di cui tutto, nel mondo, ci parla, e ricominciare a sentirne l’intima peculiare qualità, la sua anima, appunto. Che è cosa sempre possibile per i bambini, non ancora imbrigliati in schemi e schermi dell’età adulta”.

Meglio giocare a campana per strada, disegnando col gessetto e sbucciandosi le ginocchia, che rimbecillire i figli con l’iPad. Meglio sfogliare l’Inventario degli alberi (di carta) che far cadere nella rete dei personaggi televisivi i bimbi. E per farlo occorre che gli adulti si tolgano dalla rete di inutilità e riprendano a difendere la vita, quella reale. Fatta di umanità, abbracci, conoscenze vere, incontri, convivialità. Senza chattare o disquisire sull’universo mondo picchiettando sui tasti di un telefonino.

Ci ho pensato a lungo prima di scrivere una cosa così impopolare. Ma era doverosa questa riflessione. Ora spengo tutto e torno a discutere con esseri umani veri di virtù e di cose che appartengono alla realtà che viviamo. Della Magnifica Terra e di tutto quello che serve per non farla finire nelle mani dei paraculi spietati e cinici che di ogni bellezza vedono un profitto per loro e la distruzione per gli altri.

Saremo pochi, ma meglio pochi e veri e consapevoli di tanti e virtuali.

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