
All’età di quasi 102 anni – era nato nel sobborgo londinese di Stoke Newington il 31 maggio 1916 – è scomparso il 19 maggio l’islamista e storico inglese Bernard Lewis, illustre accademico di origine ebraica, autore con altri dotti colleghi americani e britannici della monumentale Cambridge History of Islam. Indubbiamente fu un personaggio molto controverso: dopo aver collaborato con l’intelligence inglese durante la Seconda Guerra mondiale, nel corso della guerra fredda assunse spesso posizioni oltranziste, ma le sue approfondite conoscenze di storia dei paesi islamici lo contraddistinguono tuttavia come un personaggio quasi leggendario. A lui – tra le tante opere – dobbiamo anche il riconoscimento del carattere particolare e unico dell’islam persiano, colto e raffinato, diverso quindi dal resto della civilizzazione araba. Accanto a ciò, Lewis però non mancò mai di sottolineare la tendenza espansionistica del mondo islamico in generale e per questo fu aspramente criticato e strumentalizzato.
In estrema sintesi – secondo Lewis – la Persia, pur conquistata dagli arabi nel VII secolo, ne subì solo l’islamizzazione, ma non l’arabizzazione e anzi continuò per secoli a mantenere un proprio carattere identitario e autonomo: «I Persiani – scrisse – rimasero sempre Persiani» ed anzi, favoriti dalla loro cultura e dalla loro posizione geografica aperta ai traffici commerciali e alla circolazione delle idee, svilupparono una propria versione culturale e politica dell’islam. L’antico impero persiano ad esempio – al contrario dei regni guerrieri arabo-islamici – disponeva di una burocrazia estesa e articolata, nelle città esistevano università dove erano insegnate le scienze (con particolare riguardo alla medicina) e letterati, poeti e musicisti componevano capolavori artistici, la cui ispirazione non si limitava all’epica guerriera per celebrare le conquiste militari. Questa particolare elaborazione dell’islam – sempre secondo il docente inglese – sarebbe in seguito diventata il vero modello ispiratore dell’impero ottomano, soprattutto nella fase della sua massima espansione.
E in effetti i maggiori intellettuali dell’antico islam furono proprio persiani, dalle lettere al diritto, dalla medicina alle scienze esatte. Dopo secoli di dominio arabo e mongolo e di violenti conflitti a nord e a sud, solo agli albori del XVI secolo la Persia riuscì a sottrarsi alla dominazione straniera sotto la dinastia sciita safavide, originaria dell’Azerbaigian in quel tempo parte della Persia. Circa un secolo dopo, durante il regno dello scià Abbas I che stabilì la capitale ad Isfahan, lo stato persiano si consolidò distaccandosi definitivamente dall’impero ottomano, ma anche conquistando l’isola di Hormuz, colonia portoghese all’imbocco del golfo Persico, e respingendo gli uzbechi che
premevano da nord. Soprattutto, con grande abilità diplomatica, la Persia seppe mantenere per due secoli ottimi rapporti con l’impero indiano Moghul in funzione anti-ottomana. Nella prima metà del XVIII secolo, sotto la spinta congiunta dello zar Pietro il Grande a nord e degli ottomani a sud, subì però una pesante sconfitta.
Nonostante queste grandi difficoltà, tra il 1736 e il 1747, sotto il regno di Nadir Scià, i russi furono respinti e fu domata una pericolosa rivolta afghana: nel corso della campagna militare fu raggiunta anche la città indiana di Delhi. Il ‘trono del pavone’, che per secoli rappresentò la dinastia regnante, pare facesse parte del ricco bottino di guerra riportato in patria. Nadir Scià fu però assassinato nel 1747 provocando la divisione del regno in due parti. Profondamente indebolita la Persia si trovò a contrastare allora due grandi imperi: alla spinta costante russa si aggiunse anche quella britannica che aveva ormai conquistato l’India. Trasformata nei decenni successivi dell’Ottocento in una sorta di protettorato delle due grandi potenze coloniali, solo a partire dai primi anni del XX secolo riuscì gradatamente a recuperare la propria indipendenza.
C’ERA UNA VOLTA Follie persiane dello Scià nell’ Iran pre Ayatollah