umani
Per non smettere di costruire mondi umani


Morire quanto è necessario, senza eccedere.
Ricrescere quanto occorre da ciò che si è salvato.

[Wislawa Szymborska]

Entro nel salone deserto del barbiere. Mi siedo, declamo a memoria e dico. Questo verso mi parla dell’equilibrio e della sua instabilità necessaria. Della vita. Della necessità, quindi, che esista un insieme di forze e armonia che eserciti un’influenza nel cuore prima che altrove, che mi faccia percepire la suggestione di incredibile pace e potenza delle pietre di Sant’Antimo, in quel susseguirsi di forme che salgono al cielo e di ombre, di luce che spezza l’oscurità e indica la strada del nascere e del morire.
Percorrendo le navate accanto a Tullio, il mio padre novantenne, ho sentito il tramandarsi della memoria. La sua mano da artista, da scultore di una famiglia di scultori e contadini, carezzava con delicatezza le pietre sacre. Ne coglieva i pregi e la porosità, l’origine e la bellezza. Le pietre gli parlano. E lui sa ascoltarne il suono antico. Io mi pongo nell’attesa e cerco di apprendere l’arte. Le pietre, come gli alberi e gli uomini. L’ascolto è necessario per costruire mondi umani, per sovvertire il pessimismo che pietrifica e che ci fa considerare merce ogni aspetto della vita, ci fa pensare agli altri come cose da trafiggere con piccole o grandi dosi di potere.

La semplicità non vuol dire resa. Il morire quanto necessario non è una sconfitta, ma una soluzione. Agire nel conflitto è l’ipotesi; ma agire, non restare intrappolato nel conformismo dei rapporti di forza, finendo per diventare attori sulla scena di una rappresentazione falsificata. Aggiungo una citazione, nel silenzio e nell’attesa che venga buio. Il vento solleva polvere e il cielo non è sincero.

Non si tratta di cristallizzare artificialmente dei rapporti di forza per loro essenza variabili e che gli oppressi tenderanno sempre a sovvertire, si tratta di distinguere l’immaginario dal reale per ridurre i rischi di guerra senza rinunciare alla lotta che Eraclito reputava condizione stessa della vita.
[Simone Weil]

Il vero potere non è quello di sopraffare, di trasformare in cose gli uomini e la bellezza in valore mercificabile. Il potere non è ridurre la vita in questa successione di cose; l’unico potere vero che possediamo è quello di continuare a progettare e a costruire mondi umani.

Il barbiere maoista e filosofo rurale dice di sì con la testa, approva questa presa di coscienza. Mentre spunta la barba fluente rompe il silenzio che si prolungava da tempo e mi parla di Ettore ucciso da quel bruto di Achille, della forza come metafora dell’occidente poco misterioso, della crudeltà che anima la storia e di quella simbolica che ci arriva attraverso i media, capaci di narrare senza narrare le storie di questa atrocità quotidiana. Di vedere senza vedere i bimbi disarmati presi a fucilate dai soldati, le persone lasciate morire sui ritagli dei giornali. Di insegnare etica e giornalismo, di prendere come esempio i fulgidi maestri di questa arte d’oltreoceano, senza provare vergogna.

Il conflitto è necessario. Conclude. Era da tanto tempo che non ci andavo. Ma questa volta avevo la necessità di confrontarmi su poesia e memoria. Su mio padre, bello e soave. Sulla pietra che vive e la vita pietrificata.

Tutti possono fare giornalismo, anche i giornalisti. Per questo occorre guardare con fiducia a ogni esperienza che sovverte i luoghi comuni, che incide sulla futuro i suoi graffiti poetici. E giornalismo si può fare ovunque, anche in un giornale. Così conclude.

Pago il costo della barba, senza sconti. Non ho capito bene. Mi sembra di aver già sentito da qualche parte questa lezione filosofica. Ne prendo atto e ci rifletto. Il vino rosso oscilla nel bicchiere e sembra anche lui alla ricerca di un suo equilibrio.

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