verità sull'eversione
Complotti, misteri e verità mediatiche cartonate

La verità del potere è sempre più rumorosa di ogni altra verità. Mediatica, cartonata, oscura o piena di lacune, è quel tessuto di conoscenza accertata e affermata che in genere tende a diventare senso comune. Non c’è bisogno di scomodare il caso Moro per capire come funziona la costruzione delle conoscenze e per capire come l’informazione sostanzialmente svolga il ruolo di “portatore sano” di questo genere di verità utile. Talvolta non sano, ma complice.

D’altra parte sulle verità traballanti, e apparentemente certissime, del potere è scritta la storia. Sono stati rovesciati governi, scatenate guerre e massacrate decine di migliaia di persone insensatamente. Raramente ho visto i media, e i protagonisti delle arene mediatiche soprattutto televisive, avere il pudore di ammettere di aver veicolato certezze farlocche, di aver fatto scoop maleodoranti, utili a una parte; di aver retto il gioco dei guerrafondai, dei mistificatori e di un sistema che si regge sostanzialmente sull’ingiustizia, in senso generale, e sulle conoscenze asimmetriche delle cose che accadono, nello specifico. Sulle false notizie in tempo di guerra c’è ampia letteratura.

Lo stesso Ennio Remondino, analista attento, ci ha scritto diffusamente. Direi che anche in tempo di pace, nel tempo del conflitto a bassa intensità, non mancano spunti…

A questo punto scomodiamo il caso Moro. Non per entrare nelle beghe dei punti misteriosi o meno, né per evocare questo o quel servizio segreto o qualche losco burattinaio. Solo per dire che delle due l’una: o in quei 55 giorni sono accadute cose che ancora non conosciamo, o tutti gli apparati investigativi erano composti da personaggi scarsi o poco attenti. Le due ipotesi, a pensarci bene, potrebbero essere collegate: probabilmente ancora non sappiamo qualche cosa di importante e chi ha fatto le indagini potrebbe esser stato fedele a giuramenti non proprio leali alla democrazia e alla costituzione. La doppiezza di quella fase ce la portiamo dietro come una croce storica. E la sudditanza della politica ha fatto il resto, i danni di questa rimozione li paghiamo e li pagheremo a lungo.

Complottismo? Ma no, assolutamente no. Il vero complotto è rappresentato dal fatto che a un certo punto della nostra storia ogni episodio eversivo è finito nel “reparto depistaggi” dei servizi segreti: stragismo, golpismo e terrorismo senza alcuna eccezione. E questo è un dato di fatto. C’è un perché? Erano brutti e cattivi? Avevano altri ordini? Chi lo sa. C’è da pensare che il vero complotto è rappresentato dal fatto che la verità ufficiale, un pezzetto alla volta, è stata adeguata e ricollocata in una sfera del possibile secondo le novità emerse (casualmente o meno). Una specie di aggiornamento di sistema, diciamo.

Per esempio su Remocontro si parla del famoso “Quarto uomo” del sequestro Moro, del brigatista non individuato inizialmente, Germano Maccari. Peccato che chi scriveva dell’esistenza di questa figura, senza farne mai nome, venisse vituperato dai media ufficiali. Ricordo perfettamente uno splendido articolo dell’Espresso intitolato: “Quarto uomo sei un fantasma”. In quelle righe un famoso giornalista spiegava con dovizia di particolari e citazioni colte che era ora di finirla con le farneticazioni da pistaioli.
Tanti anni dopo è bello sapere che le farneticazioni erano dell’Espresso e del prestigioso giornalista che tanto ha fatto per narrare le verità di potere, qualunque fossero. Era complice? Ma no, dai… Era un giornalista che aveva capito che esistono strade buone e strade meno buone. Alcune sono più utili di altre. Un giornalista che assecondava le sue fonti, senza valutare il fatto che non sempre le fonti sono affidabili… soprattutto le più ufficiali e indiscutibili. Tra l’altro, nelle carte processuali questa storia c’è, il nome del brigatista era saltato fuori in modo stravagante durante un’intervista che tendeva, maldestramente, a rafforzare la verità accertata e senza dubbi. Ironia della sorte.

Per concludere questo Polemos fuori tempo massimo, dico che in teoria il mestiere del giornalista non è quello di pettinare per il verso giusto il potere. Ma, se possibile, di spettinarlo, di uscire dal coro, cercare il dettaglio che mette in discussione le verità ufficiali. Ovvio che per farlo occorre non essere embedded. Anche perché una cosa è fare il maggiordomo, una il giornalista vero. Poi nelle questioni che attengono alla storia, il passaggio-chiave è rappresentato dalla ricerca indipendente e forte, dalla cultura e capacità di chi lavora perché la storia non sia una sommatoria di chiacchiere, nefandezze e complotti, o complotti per nascondere le nefandezze e anche l’esatto contrario. Si spera che lontano dalla carne viva del tempo e dalle comodità politiche internazionali, che si fondano su dimenticanze e oblio a cancellare memoria e identità, il mestiere di storico possa un giorno uscire da questo labirinto e tratteggiare con distacco e oggettività quello che è successo nella nostra disastrata democrazia a sovranità limitata.

Alla faccia dei politici che non hanno mai voluto o potuto affrontare il tema della verità storica sull’eversione. Alla faccia del giornalismo di successo – che mai disturba il manovratore, chiunque sia – e dei ricercatori di verità già scritte.

Insomma, ho fiducia nel futuro per capire quello che è stato della nostra storia.


Ps.

Dopo questo divagare faticoso torno alla mia rinascita rurale: coltivare cultura dove il seme può far nascere una pianta di verità, sottraendosi alla baraonda nefasta dell’epoca. A un certo punto, dopo aver analizzato la situazione, occorrono decisioni. Non si può fingere sempre coerenza, a occhi chiusi, affidando la propria sorte a fonti misteriose e interessate a una narrazione probabilmente tossica della realtà.

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