Il canto di Sant'Antimo
Il canto di Sant’Antimo e l’arte di vivere

Quando nell’abbazia di Sant’Antimo, vicino a Castelnuovo dell’Abate, a sud di Montalcino, c’erano i frati, nelle navate risuonavano le loro voci intrecciate in un canto gregoriano profondo e soave. Potevi essere agnostico, ateo, seguace della religione yedi, ma quell’incanto ti rapiva il cuore. La pietra stessa, antica e forte, restituiva gli armonici, nelle diverse ore della giornata, dalle lodi mattutine alla compieta prima di dormire.
Magnificat anima mea Dominum, estatica voce del vespro lasciava spazi di arte e bellezza talmente scoscesi da perdersi e ritrovarsi tra il colonnato e l’infinito, riconsegnandoti diverso alla vista degli alberi d’ulivo, appena fuori. In un luogo sognante e senza tempo, austero e magico.

Poi i frati della comunità dei Canonici Premostratensi hanno lasciato Sant’Antimo. Ora quelle pietre non risuonano più. O, per lo meno, non di arte pura e visione. Adesso, appena si varca la soglia, ad attendere il visitatore ci sono le stesse voci, magneticamente imprigionate. Suona un cd di sottofondo con i canti gregoriani, per accompagnare la visita turistica. Alla fine della quale si può acquistare dalla guida – unico essere umano reale nell’abbazia – il cd musicale.

Un prodotto spettrale al posto di un incanto artistico.

Racconto questa storia perché mi aiuta a tratteggiare ancora il concetto di spirito rurale non addomesticato e dissidente, in contrasto con la mercificazione di ogni azione di bellezza, di ogni sentimento, irreggimentato in dosi massicce di conformismo e superficialità.

Fosse rimasto il silenzio profondo, nel cuore dell’abbazia, sarebbe stato meglio. Invece no.

Siamo di nuovo sulla soglia che differenzia il bene comune dal bene commerciale, che differenzia l’arte di vivere dalla produzione di arte. L’arte di vivere – parafrasando Ivan Illich – come quella dei danzatori in una festa di piazza a San Quirico d’Orcia o dei frati che lodano Dio innalzando le loro voci armoniche al cielo, “si esaurisce nell’atto del plasmare vita e ambiente di vita, che dai componenti della società è intesa quale parte integrante della realtà, non già come opera d’arte. Esattamente l’opposto di quanto si verifica con il produttore d’arte il quale per concepirsi tale deve contrapporre il proprio prodotto ad altri prodotti che sono non-arte. Il processo produttivo dell’arte la estrare dal tutto esistenziale, pone il valore arte in antitesi ad altri valori, rendendo in tal modo sia il processo di produzione dell’arte, sia il prodotto artistico, un valore limitato e pertanto potenzialmente scarso”.

Il concetto filosofico di rinascita rurale su questo si basa: sul dissenso e sull’abitare come frutto dell’arte di vivere. Sulla non accettazione di dogmi che allontanano il cuore dell’uomo dalle proprie radici, quindi dalla forza della memoria come energia che produce pensiero e libertà, sul paesaggio come fatto culturale. Sull’arte restituita alla comunità, sottratta dalle mani rapaci dei collezionisti e dei mercanti, dai produttori di valore che si poggia unicamente come valore economico. Arte come valore umano. Come azione di bellezza sul territorio, senza copiaincolla, senza presunzioni, senza sudditanza. Azione semplice, come un canto gregoriano. Quindi semplice e complessa, frutto di tanto lavoro e studio. Ma capace di spalancare le orecchie, gli occhi, sbigottire e commuovere, prendere per mano e rapire.

Rurale è semplice, contro il complicato e artificioso del vivere conformista: è libertà contro la falsificazione della libertà all’interno di un gigantesco supermercato privo di valori umani e ricco di seduzione e inutilità.

Noi qui, per l’allegro e l’austero. Per la festa. Per visione e la disobbedienza, continuiamo eretici a professare la nostra dissidenza totale. Per mettere in discussione ogni strumento che prevarica l’umano, ogni furto che ci priva di dolcezza e bellezza, per la rinascita artistica e rurale.

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