L’arte dell’abitare: suolo, virtù rurale e lavoro

Un anno fa è partito questo nuovo progetto. Di vita, culturale, filosofico, sovversivo. Un passaggio che servisse a noi esseri umani di fare del pensiero un’azione, di non restare schiavi appesi alla macchina del sistema, provando, almeno provando, ad alzare la testa, a ragionare con senso critico, a guardare con occhi diversi. Rivoluzionario, ovvio. Ma che si basasse su un concetto semplice: non si può essere rivoluzionari se non rivoluzionando se stessi (parafrasando Wittgenstein).

Di finti rivoluzionari, falsissimi sovversivi conformisti e grandi profeti del cambiamento, senza cambiare niente, ne abbiamo conosciuti anche troppi. Scintillanti pensatori paraculi, artisti al servizio della bruttezza dominante, comunicatori votati al successo, considerando il successo la ribalta esatta sulla quale – ammaestrati – esibirlo. Tutti con pieno diritto a essere quello che sono, ci mancherebbe altro… Con lo stesso diritto che ha il settore marketing del Tavernello di definire il vino accartonato alla stregua di un ottimo prodotto del lavoro del contadino e del vignaiolo. Con tanto di ambiente falsificato di ruralità e visione magica.

Un anno fa così ci siamo presentati: “Residenza artistica e umana nel cuore della Toscana senese nell’ambito del Progetto Coltivare Cultura. Il paesaggio come fatto culturale”. Venti parole per cominciare a riflettere. “Con queste venti parole è cominciato il nostro cammino. Un attraversamento lento, di cura e attenzione, di scrittura e immagini sul crinale della storia. La Valdorcia meravigliosa, le campagne e i boschi, gli orizzonti spettacolari tra La Foce e Radicofani, dalla terrazza di Castiglioni a Pienza. Poi Campiglia, Monticchiello e più distante Montepulciano, fino alla bellezza assoluta di San Quirico. Osservazione e studio. Incontro e ascolto. Per costruire un progetto corale che possa portare questa realtà fertile al centro del mondo. Non come cartolina, ma come cantiere creativo, come luogo di sperimentazione umana, artistica e culturale, come confine di bellezza”.

Un passo in un mondo, quello rurale, che ha sempre insegnato e continua a farlo. Per la rinascita di buone pratiche di semplicità e austerità, che vengono messe in campo naturalmente dalla comunità che vive e agisce secondo uno spirito rurale. E che nella convivialità opera, talvolta con una semplicità con tratti di inconsapevolezza, ma in modo totalmente diverso rispetto alla stessa idea ecologica metropolitana. Qui le persone sono, non sembrano. Qui si trovano le basi possibili di quello che Ivan Illich definiva: “Un mondo in cui ognuno possa essere ascoltato, nel quale nessuno sia obbligato a limitare la creatività altrui, dove ciascuno abbia uguale potere di modellare l’ambiente che a sua volta poi determina i desideri e le necessità”.

Fino ad ora, per lo meno. Ma l’ombra della cultura devastante urbana si allunga pericolosa. Questo è il limes, qui dobbiamo agire per difendere una modalità di austerità e cultura – lenta, profonda e soave – contro l’invasione dilagante della ferocia di ogni forma di valore, solo economico mai umano, legato alla sfruttamento del territorio, all’arricchimento di pochi, alla sottrazione del bene comune a vantaggio dei più ricchi.

“Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo – la sua coltivazione e il nostro legame con esso – è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale. Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù.
Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo”.

Queste frasi sono nella Dichiarazione sul suolo del 1990 di Ivan Illich, Lee Hoinacki, Sigmar Groeneveld. La forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione… nel rapporto profondo e fertile col territorio. Virtù umane che creano l’abitare conviviale e rispettoso nel rapporto umano. Unica possibilità di futuro per i nostri figli.

“Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso, all’abilità artigianale, all’arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra, l’ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra il suolo e l’essere umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo a punto i concetti che ci permetterebbero di porre in relazione la virtù con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal controllo pianificato del comportamento su un pianeta condiviso”.

Leggetela tutta questa dichiarazione di tanti anni fa, è interessante. Noi ci muoviamo su questa traccia. E per portare avanti le nostre riflessioni in modo non casuale e non teorico, abbiamo abbandonato tutto e abbiamo scelto la strada di una vita sostenibile in questo territorio di confine. “Dopo che il suolo è stato avvelenato e cementificato, parlare di amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialità appare come una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto casuale tra veicoli, uffici, prigioni e hotel. Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non più. Il suolo su cui la cultura può crescere e il grano essere coltivato svanisce alla nostra vista allorché viene definito nei termini di sottosistema complesso, settore, risorsa, problema o impresa”.

Seduti sulla soglia di questo tempo, prima che scorra via ogni speranza e che il sentimento nero e pessimista dell’epoca travolga ogni futuro, ogni possibilità rivoluzionaria di bellezza e convivialità, ci ostiniamo. Ci ostiniamo in una resistenza attiva che gonfia le vele dell’utopia concreta. Questa utopia del fare di un pensiero un’azione, del qui e ora, con spirito rurale e visionario noi la viviamo in prima persona. E la narriamo vivendo. E lasciamo il seme sotto la neve, perché un giorno sarà fiore e sarà ombra resistente e fertile di bellezza rurale.

Ps
Su questo giornale che amiamo ci sono tante tracce di questa ricerca umana e culturale prima che narrativa.

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