
I nostri antenati sono arrivati su ogni luna, attraversando deserti e distese. Prima, molto prima che gli americani si mettessero fare astronavi. Prima che le guerre diventassero tecnologiche e orientassero il mondo verso l’assuefazione ideologica. Niente conflitto, niente dialettica, niente etica del discorso. Solo Assuefazione a ogni forma di droga. Senza bisogno di aghi o spacciatori. È nell’aria, nella comunicazione sottile, in quella meno sottile, nella perversione del disastro. Viaggia sulla nuvola della bruttezza in ogni sua declinazione possibile.
Quanto è alto l’universo. Quanto è profondo l’universo. Penso al fabbro che con le sue mani sapienti martella musica per le mie orecchie, sale nel cuore il ritmo di una canzone dei Csi, ritrovo una antica lettera dispersa nel tempo. Non dispersa, direi in viaggio nel tempo.
Un’antica lettera scritta con calligrafia minuta su un foglio di carta ingiallito e quasi trasparente. Penso sia carta da lettera “par avion”. Quelle carte che viaggiavano su buste lievi come farfalle, capaci di viaggiare nei cieli per settimane e ondeggiare con i loro segni blu e rosso.
Sigillate con le labbra, con indirizzi maestosi scritti con la stilografica, destinati a svanire come un sogno. A lasciare un pezzo di cuore e un fascio di lettere in un cassetto, avvolte da un fazzoletto, strette da uno spago o da una fettuccia colorata. Che è stata colorata. E che un giorno spalancherà le porte del miracolo.
Oggetti troppo belli per sorvolare.
Così quando mi sono ritrovato tra le dita una di queste lettere delicate, ho scoperto che in questo “qui e ora” del nostro attivismo, della sovversione, della bellezza e della fatica, siamo i nostri antenati, quelli che hanno disseminato la nostra vita di tutto quello che oggi rivendichiamo e agiamo. Siamo noi i padri e le madri e i loro progenitori. Quelli che hanno fatto l’amore per millenni. Che hanno sperato, osservato l’ignoto. Si sono interrogati sulle stelle, hanno costruito città ideali su quelle domande.
Hanno conquistato i mari, li hanno solcati; hanno conquistato la terra, l’hanno attraversata. Senza eroismi, con l’ardire dell’avventura. Con il coraggio della vita. E prima di loro, prima della pietra, hanno conquistato la luna e tutte le stelle e hanno raccontato l’utopia in ogni loro sogno prima ancora che qualcuno potesse mai sognare di mettere in commercio l’inutilità delle astronavi di acciaio e titanio.
In Valdorcia, dice questa lettera, un giorno di chissà quanto tempo fa, gli allevatori e contadini videro apparire come in un sogno, in un notte in cui le stelle erano così basse che si potevano contare una a una, un animale mitologico. Uno solo. Passò lento e indiscutibile sulle lande sassose, tra calanchi e depositi di sale, in questo mare asciugato dai millenni che conserva il suo salmastro ancora oggi. Basta che soffi il vento e si sente nelle narici che questo era un mare e che c’erano delfini e pesci scomparsi. Volanti e colorati di mille scaglie.
Quel giorno apparve il Camelus Ferus dagli occhi blu. Se ne andava per conto suo. Selvaggio, perché altrimenti sarebbe stato un cammello da circo e non un ferus. Potente e anarchico, tagliò la valle e sparì all’orizzonte. Un contadino artista ne scolpì il profilo, suo nipote raccontò ai figli che aveva occhi di ghiaccio, ed era strano per un camelus ferus.
Disse così: era strano. Ma nessuno aveva mai visto un animale del genere e quindi nessuno poteva verificare l’eventuale stravaganza del colore blu degli occhi. Però rimase impresso nella mente di quei bambini che continuarono a far vivere questa storia per anni e anni, per secoli e millenni, fino a questa lettera che oggi, proprio oggi che è primavera, mi arriva in mano. Inaspettata, come quasi tutto in questa magnifica terra. Un raggio di sole attraversa la vetrata, si poggia delicato come un ricordo tra la sedia da scuola e la terra di cotto del pavimento.
Esistono graffiti che tramandano questo miracolo, dice la lettera. Sulle pendici dell’Amiata, in una grotta che cela i misteri del mondo e delle valli. Il camelus ferus dagli occhi blu arrivava dal Deserto dei Tartari, quello spazio sottile tra il Gobi, le steppe di Genghis Khan e le montagne dell’Altai.
Noi antenati del nostro abitare, coscienti di fronte al miracolo, siamo qui e ora, a raccontare questa esperienza. Vivendola e restituendo l’utopia e la meraviglia che da sempre ci sono donate. Per i nostri figli, per tramandare, perché lo spirito rurale è il futuro.