
Il mio sguardo si perde nel verde. Nel verde che mi sovrasta scendendo da casa o in quello che mi avvolge quando affacciata alla terrazza di Contignano aspetto. Aspetto che il tempo scorra. Lento, dolce, profondo nei miei pensieri. Da una parte Radicofani, dall’altra l’Amiata gigante tra le nuvole. I confini del mio abitare.
Guardo le colline e le grandi distese della Valdorcia dove inconsapevoli brucano le pecore e non posso far a meno di riportare alla memoria quei vecchi pomeriggi in cui bambina, distesa sui prati della mia terra, guardavo i cani inseguire le pecore giù per le grandi distese. E quel verde quasi ingiallito della mia Sardegna, che a tratti si mescolava con l’azzurro intenso del mare e del cielo, mi fa pensare a come la dolce curva delle colline possa lasciare lo spazio a un profilo più forte e deciso senza perdere eleganza e bellezza.
È diverso il verde della mia Isola. Dove d’un tratto diventa azzurro e poi di nuovo verde. E diverso è il profumo della mia terra dove tutto è fin troppo intenso. E diverso è ciò che ascolto, dove i suoni della campagna si confondono con quelli del mare. Dove all’improvviso tutto si unisce e non sai più dove finisce uno e comincia l’altro.
Azzurro profondo, increspato dal vento il mare di Cefalù. Il mio sguardo che si distende della valle, carezza colline e si proietta oltre: penso che qualche giorno fa ero proprio su quegli scogli ad ascoltarlo il canto del mare, la tranquillità dell’infrangersi delle onde. Nel piccolo borgo marinaro del parco delle Madonie, l’azzurro si scontra con il colore terrigno della Cattedrale, con il bianco pietroso della rocca. Qui in Valdorcia il silenzio. A Cefalù le mille voci arabe. Camminando per le strade del piccolo borgo è difficile non notare l’allegria delle tonalità e il vociare della gente. Le case, le strade sono piene di persone e gli odori del cibo così presenti e particolari che mi fanno fare un altro balzo nei ricordi riportando la mia mente a Tunisi nella dolcezza dei colori e nel frastuono del mercato.
Poi i colori vivaci dei mosaici, le ceramiche decorate con smalti artigianali e antiche tecniche di lavorazione che sono presenti ovunque: nelle scale delle chiese, nelle case, nei muri di recinzione. Piccoli quadrati che partendo da una base bianca neutra piano piano acquistano una gamma infinita di sfumature ispirate alle onde del mare e ai colori dei fiori, dei prati.
Casa. Anche qui, nella coscienza dell’abitare. E leggo ad alta voce una poesia di Derek Walcott che ho il dovere di citare, perché coglie questo insieme di suggestioni che mi abbracciano. Eccola, leggetela anche voi ad alta voce.
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.
[Derek Walcott]
Scendo da Contignano costeggiando l’Orcia. Mi rendo conto di essere ricca, di aver ripreso un pezzo di cuore. Di essermi seduta e aver sorriso al benvenuto dell’altro. Non è poco.