
Mi capita spesso di soffermarmi sulla distanza che c’è – enorme, incolmabile – tra la realtà quotidiana e la narrazione di questa realtà, sia sul piano politico che mediatico. Un solco che cogliamo ogni volta che accadono cose imprevedibili, che non pensavamo possibili. O che per lo meno non sembravano possibili agli analisti della politica, dell’informazione. Oppure che ci appare chiaro chiarissimo quando attraversiamo una storia, una vicenda e vediamo come venga deformata, nella migliore delle ipotesi. Spesso ignorata per un racconto surreale delle cose che accadono, fatto di dimenticanze e punti d’ombra, di interessi che niente hanno a che fare con la democrazia, figuriamoci con l’informazione. Con quell’aspetto della democrazia che è rappresentato dalle conoscenze condivise, da quell’insieme di saperi che dovrebbe aiutarci a comprendere quello che viviamo e a scegliere.
Mi scrive un lettore, un tempo collega, e mi contesta in modo acceso. Avendo scelto di partecipare a questo giochino mediatico dei social, accetto di buon grado. Per di più la contestazione è privata. Quindi aiuta a riflettere, somiglia a un toc toc sulla spalla di un amico. In parole semplici mi dice che non sono più un giornalista perché invece di fare scoop e dare la caccia alle notizie, critico le forme ufficiali del giornalismo (quindi della democrazia e della difesa della libertà di stampa), gingillandomi con seghe mentali sull’arte, sulla bellezza, sul bene comune e – sfrontato – usando brutte parole che tanto ci hanno fatto soffrire come “rivoluzione”, “uguaglianza”, “sovversivo”, “giustizia sociale”.
La lettera mi tocca. Sono un ex giornalista davvero? Che cosa penso degli scoop? E delle fonti? Perché mi gingillo invece di farmi ricamare la cifra sulla camicia? Perché amo le scale di pietra dove sedere e guardare la bellezza del paesaggio e non frequento i salotti dove potrei capire di più del senso della vita?
Domande senza risposta. Neanche provo a difendermi.
Non posso che parlarne con il mio barbiere maoista rurale, seduto comodo in quella specie di chat umana che è il suo negozio da barbiere vietato agli hipster. Per quello che è il mondo, il tuo interlocutore ha ragione da vendere. Al netto delle fake news, fatto salvo un grande del giornalismo come Gianni Riotta, l’informazione è sempre di parte. Due rasoiate e tutti a casa. Non c’è bisogno di troppi giri di parole, di acrobazie dialettiche sul filo di un ragionamento che parte, viaggia, vola, si spinge distante e ondeggiando crea armonie e dubbi nel cielo.
La frangetta non va più di moda eppure aveva il suo che… Aggiunge serafico. La frangetta anni Settanta? Ti pare il momento storico adatto? Non essere così drastico, risponde. Penso che ognuno possa fare quello che vuole, anche portare la frangetta anni Settanta. A me mette paura. La frangetta lunga sugli occhi? No, il fascismo senza storia, imbevuto di sciocchezze e falsa coscienza. Mi ribolle il sangue a pensare alle discussioni mediatiche infinite sull’immigrazione a fronte di zero proposte sane sulla sovranità reale del paese, su una visione internazionale, sui servizi sociali, sul lavoro per tutti e non per pochi.
Mi legge un pezzo che conosco, avendolo scritto io, ma taccio per buona creanza: “Il voto ha fotografato il Paese per quello che è, per quello che esprime, nella scissione potente tra le fatiche quotidiane delle persone e la rappresentanza politica, tra realtà e narrazione mediatica della realtà. Tra la vita di ognuno di noi e il racconto un po’ tossico, taroccato, che avvertiamo nell’aria. Mentre tutto intorno, quello che viviamo è disagio. Senza vie di uscita se non la rabbia e l’ululato. Risentimento senza coscienza. Senza quel valore politico popolare che lo trasforma in potenziale cambiamento. La società in questi anni si è lentamente trasformata in una collettività cieca, obbediente nel mantenere e aumentare i propri squilibri a proprio discapito. Era davanti agli occhi di tutti”.
Già, aggiungo. Divaghiamo, conclude il barbiere mentre spruzza un liquido assurdo. Divaghiamo. Il punto è che le parole ci sono sfuggite di mano. Ed è per questa scelta epocale di lavorare con le parole che mi sono trovato a definire meglio il mestiere che ho amato e che amo. E se posso rispondere con chiarezza, ho concluso improfumato da far ridere: non sono un ex, penso che gli scoop siano stati il sale del mestiere, ma che come tutto in questa democrazia asimmetrica siano diventati strumento privo della finalità essenziale: la conoscenza di ciò che il potere voleva tener nascosto. E qui passo alle fonti. Vorrei sempre che fosse nota la fonte, qualunque essa sia, l’Ansa, l’ufficio di pubbliche relazioni della grossa azienda, lo spione di turno… E poi… E poi ti fermo qui caro. Rispondi a domande che non ti ho posto, in quanto alchimista e filosofo so bene dell’inutilità di porle e quindi mi rendo conto che ogni risposta, saggia o scombiccherata, non ha alcuna ragione di essere ascoltata da me e dai miei preziosi clienti paganti in attesa. Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, afferma come colpo di rasoio.
Tutti abbiamo i nostri saperi e teniamo nel cuore le delusioni che ne discendono. Pago, esco. Fuori mi accoglie il prezioso mondo rurale che ha in sé le potenzialità creative che sembrano sparite dalle metropoli dell’ingiustizia. La semplicità accoglie i miei passi, lo sguardo si distende lontano. Nuove idee e nuovi progetti fioriscono dalla mia mente improfumata dal maoista alchimista.