
Una coltre bianca a coprire molte miserie ed infinite paure. Il Kosovo elettorale di sabato a fare da velo al Kosovo monoetnico albanese che si prepara. Tanti arbitri internazionali per una semplice vigilia rispetto al terremoto che sta per scuotere tutti i Balcani e che nessuno sembra in grado di prevenire.
Bandiere americane ovunque a dire degli “amici certi”, rispetto ad un’Unione Europea chiamata solo a pagare i conti. Vince l’esponente politico albanese che nasce dalla guerriglia Uck, come se dopo i bombardamenti Nato contro la Jugoslavia fosse mai esistita una alternativa alla indipendenza del Kosovo albanese a qualsiasi costo.
Ashim Tachi, prossimo premier, possiamo persino definirlo personaggio moderato. Creatura statunitense da sempre, riferisce la cronaca della memoria. Costruito come guerriero ora si ricicla come politico e si appella all’indiscusso sostegno americano e a quello sperato da parte dell’Unione europea.
Altrimenti ci arrabbiamo nuovamente, minaccia una piazza giovanile tanto agguerrita quanto ben coordinata che da mesi tira la volata all’autoproclamazione di indipendenza in doppio petto che si prepara. In comune con gli altri kosovari già segnati a perdere, i serbi, è il disprezzo per la lunga ed inutile mediazione Onu condotta del finlandese Ahtisaari.
Più che una mediazione sembra un mercato, denunciano gli ottantamila serbi chiusi nelle loro enclavi.
A Gracanica, attorno al santuario cristiano che diventa fortilizio sotto tutela Nato.
“Un po’ di indipendenza, ma non troppa”, come se fosse una spezia da dosare nel pentolone delle streghe.
A Vienna, l’ultimo teatrino dove le delegazioni albanese e serba fanno finta di parlarsi.
“Tutto meno che l’indipendenza”, dice Belgrado.
“Niente di meno che l’indipendenza”, ribatte Pristina.
In realtà, a litigare di più tra loro, sono i tre mediatori internazionali.
Gli Stati Uniti che hanno scelto la parte albanese da subito e pensano alla loro base militare kosovara di Camp Bondsteel.
I russi che denunciano la palese illegalità della forzatura americana ma pensano a Cecenia e Caucaso.
L’Unione Europea che media tra i due per nascondere le proprie divisioni interne.
A dar voce alla storica presenza serba che qui s’è cristianizzata, siamo andati al monastero di Decani, altra isola etnico-religiosa difesa dai blindati italiani.
Padre Sava ne è priore.
D. Cosa sarebbe la Serbia senza il Kosovo?
“Il Kosovo rappresenta un tesoro per l’identità serba, per la sua religione, per la sua cultura. La Serbia senza il Kosovo vivrebbe una fonte di trauma continuo a svantaggio della stabilità dell’intera regione”.
D. Ed il Kosovo senza i serbi?
“Sono talmente tanti i popoli vissuti qui che il Kosovo deve rimanere una realtà multietnica. Senza i serbi, il Kosovo diventerebbe un secondo stato albanese nei Balcani, con conseguenze incalcolabili”.
Qui a Pristina c’è il solito tempaccio kosovaro di febbraio, con la neve sola alternativa alla pioggia, un traffico disordinato che cresce, se possibile, più delle nascite, un’aria che sa di gasolio e un freddo cane. Domani il Kosovo celebra il primo anniversario della sua indipendenza. Il Kosovo albanese, ovviamente. Il Kosovo serbo, quello delle enclavi di Gracanica, Gorazdevac, o il territorio franco di Mitrovica Nord, non festeggia e, si teme, possa dare segnali pubblici della sua rabbia disperata. Il Kosovo multietnico e condiviso esiste soltanto sui carteggi ipocriti e bugiardi della diplomazia internazionale. In Kosovo, nessuno ha in realtà buone ragioni per festeggiare. Uno Stato-non-stato, un territorio diviso, una popolazione che i suoi nemici li ha nella casa accanto, la speranza diventata disillusione, la corruzione che è la regola.
Più un protettorato internazionale che uno stato sovrano, realtà indefinita che esiste soltanto per 54 Stati sovrani sui 192 che compongono le Nazioni unite. Dal 17 febbraio 2008, di nuovo c’è una nuova costituzione, una serie di leggi e un mini esercito di 2500 uomini addestrati dalla Nato. Forza di sicurezza definita da Belgrado, “illegale, paramilitare, una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Serbia”. Nel pantano Kosovo è finita, sino al collo, l’Unione europea. Il Parlamento di Strasburgo, il 5 febbraio, ha approvato una risoluzione con la quale si invitano tutti i paesi Ue che ancora non lo hanno fatto a riconoscere il Kosovo indipendente. 424 voti a favore e 133 contrari. Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia, non intendono però modificare il loro No al Kosovo indipendente, anche se tutti i 27 paesi UE hanno appoggiato la missione Eulex in Kosovo.
L’odio mai superato esplode nell’eredità dei figli: un gruppo di ragazzi serbi, accerchiati nei loro villaggi fortilizio, scovano un gruppo di coetanei albanesi e li inseguono. I tre fuggiaschi cercano di salvarsi gettandosi nel fiume ma affogano. Da ieri, giorno dei funerali, in tutto il Kosovo è caccia al serbo. Due milioni di albanesi contro meno di duecentomila serbi rimasti, a cercare di chiudere una partita di violenza che milioni di dollari di missioni umanitarie non è riuscita neppure a scalfire.
A Kosovska Mitrovica, la Berlino dei Balcani, città divisa in due dall’odio etnico, è stata guerra vera, con morti e feriti, alcuni gravi anche fra le forze militari dell’Alleanza atlantica. Nella zona sotto comando italiano, attorno alla città di Pec, è in corso l’assedio alle piccole enclavi serbe rimaste, con i nostri militari costretti a sparare. Situazione drammatica, che per chi ha esperienza dell’area, rischia anche di degenerare ulteriormente.
Avevamo confuso dei semplici armistizi per una pacificazione reale, per inseguire guerre più lontane, e la guerra rischia di riattizzarsi alle porte di casa. Preoccupazione e impotenza a livello di comunità internazionale. Il leader albanese del Kosovo lancia preoccupate grida d’allarme e inviti alla calma, ma la gente albanese segue per le strade i vecchi comandanti della guerriglia UCK che hanno continuato a far politica con il kalashnikof. Da Belgrado il nuovo premier serbo Kostunica, chiede la convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. L’altro ieri avevo incontrato Kostunica a Belgrado. Parlando del Kosovo, il premier aveva ricordato come quell’area, riconosciuta dalle Nazioni unite come territorio serbo, era nei fatti “Il buco nero dell’Europa”.
L’autista che da anni mi porta a spasso per il Kosovo si chiama Yanez, come il fido amico di Sandokan. Il suo nome albanese, in realtà, è leggermente diverso, ma Yanez alla Salgari è più facile da ricordare. Yanez kosovaro è ovviamente un amico fidato. Ha anche un cognome. Quello vero risulta sulle ricevute destinate alla Rai. Per noi della “squadra balcanica” è Yanez Shummamir e basta. “Shum ma mir”, che io scrivo all’italiana, in albanese vuol dire “Tutto bene”. In tanti anni d’avventura per gli angoli meno fortunati del mondo, ho imparato una lezione. Quando ti assicurano che tutto va bene, vuol dire guai certi. Il corrispettivo del “shum ma mir” albanese è “Nema problema” in serbo. Per il turco, la formula fatale è “Problem yok”: nessun problema. La maledizione delle parole che si traducono, nei fatti, all’incontrario. La maledizione linguistica balcanica colpisce anche gli idiomi internazionali in trasferta da queste parti.
Prendiamo l’ormai mitica risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul Kosovo. Visto che voglio raccontarvela nei dettagli nascosti, impariamo a chiamarla per nome: per il buon balcanico non è “uno due quattro quattro”, ma la “dodici quarantaquattro”. Sto parlando sempre del cappello messo nel 1999 dall’Onu ai bombardamenti Nato, quando ormai la Jugoslavia era stata spianata. Nata come pezza al buco già fatto, quella risoluzione segue il perverso destino del nostro shum ma mir. Formalmente dice una cosa, poi ognuno la interpreta come gli pare. Esempio. Nel suo prologo la “Risoluzione” (già la parola fa paura) parla del Kosovo come territorio della Serbia. Firmano i potenti del Mondo, con Stati Uniti e Russia in testa, ma il Kosovo serbo deciso a New York (Palazzo di vetro), a Pristina diventa l’attuale Kosovo indipendente albanese. La famosa maledizione balcanica delle parole, visto che la “Dodici quarantaquattro” resta lì, ferma ed immutabile, monumento planetario alla presa in giro.
Per gli albanesi del Kosovo, comprensibilmente, la 1244 somiglia ad una bestemmia e, dopo aver restituito con gli interessi quanto incassato da Milosevic, si prendono il Kosovo sollecitando gli ex vicini di casa a cambiare aria. I serbi che restano si chiudono nei loro fortilizi etnici e di appellano alla 1244 come al vangelo della loro cristianità ortodossa. Per analogia di fede, anche i russi di bloccano attorno al quel “Kosovo parte della Serbia”. Ad innovare lessico e diritto internazionale ci pensano gli Stati Uniti che hanno firmato la risoluzione ma che avevano deciso da tempo che il Kosovo sarebbe stato tolto alla Serbia. Gran parte dell’Unione europea, Italia compresa, segue le indicazioni d’oltre Atlantico. L’America di Bush può essere decisionista, l’Europa “patria del diritto” si arrampica sugli specchi e fa piroette giuridiche con doppio salto mortale ed avvitamento a destra per accodarsi alle decisioni altrui.
Il riconoscimento del Kosovo indipendente albanese sta “dentro” la 1244, esattamente come il No russo e quello degli altri tre quarti di Paesi al mondo che non lo riconoscono. Ora, per fortuna, in Kosovo è arrivata l’Unione Europea a portare legge e pace con la missione “Eulex”. A proposito delle parole e del loro discutibile significato, per Pristina sentivo citare la missione europea nella parlata americana ormai d’obbligo: “Yu-lex”, che suona come “Your lex”. La tua legge, non la mia. “Shum ma mir” dicono a Pristina. “Nema problema” dicono Mitrovica nord. Auguri, diciamo noi toccando legno.