
Nessuno ormai dubita più dell’abilità manovriera di Kim Jong-un, del resto riconosciuta dallo stesso Donald Trump. Spedire al Sud la sorella Kim Yo-jong – piuttosto carina e fotogenica – in occasione dell’apertura delle Olimpiadi invernali è un’ottima mossa, in grado di creare scompiglio nel campo avversario.
E lo scompiglio si è puntualmente verificato. Si ipotizzava addirittura che Yo-song potesse incontrare il vice-presidente Usa Mike Pence e aprire così un collegamento diretto con Washington, ma tale scenario è stato subito scartato dagli americani per ragioni più che ovvie. Il dialogo sarebbe ovviamente utilissimo, ma presuppone una reciproca (per quanto minimale) fiducia che, allo stato attuale, non c’è proprio.
Si può allora osservare che la mossa di Kim ha comunque avuto un certo successo, soprattutto nella Corea del Sud. Di solito si pensa che Seul sia l’epicentro dell’ostilità nei confronti del Nord, ma le cose non stanno proprio così. Molti politici sudcoreani incluso l’attuale presidente Moon Jae-in, e una parte consistente dell’opinione pubblica sono favorevoli al dialogo e non approvano la politica dura adottata da Trump.
Anche in questo caso le ragioni sono evidenti, dal momento che il primo e più grave impatto di un eventuale conflitto nucleare riguarderebbe proprio la penisola coreana, visto che la stessa capitale sudista dista molto poco dal confine con il Nord. Tale atteggiamento irrita parecchio gli americani, che accusano il Sud di avallare in questo modo i ricatti di Pyongyang. Ma è evidente che la prudenza sudista è giustificata dalla situazione sul terreno.
D’altra parte Kim non perde occasione di sfruttare le incertezze degli avversari. Quest’anno, a differenza di quanto è avvenuto nel 2017, la grande parata militare annuale non è stata trasmessa in diretta e lo schieramento delle forze, ivi inclusi i missili nucleari, è stato minore. Ciò ha dato forza ai fautori del dialogo intercoreano e a tutti coloro che ritengono la massiccia presenza militare Usa nella penisola dannosa o, quanto meno, controproducente.
Questi giochi sottili potrebbero essere scompaginati all’istante qualora Trump decidesse di agire di testa sua, attaccando il Nord senza punto curarsi di ciò pensano il presidente sudcoreano e i fautori del dialogo in genere. Uno scenario senza dubbio possibile, anche se il tycoon, nel suo primo anno di presidenza, ha dimostrato di essere meno impulsivo (o meno folle) di quanto si temeva.
Kim sembra ora in una posizione di attesa. Ha diminuito le provocazioni, comprendendo che un eventuale attacco Usa avrebbe conseguenze devastanti. Ma, al contempo, non cessa di rivendicare per il proprio Paese lo status di potenza atomica, ben conscio che l’arsenale nucleare è l’unica garanzia di sopravvivenza per lui e il suo regime. E tale certezza gli deriva dalla fine che hanno fatto altri dittatori, per esempio Saddam Hussein e Gheddafi, che non avevano giocato tale carta.
Ormai pochissimi credono al mito della Corea del Nord quale unico regime comunista sopravvissuto, e Pyongyang appare sempre più come una sorta di monarchia ereditaria. Il problema è che il regime possiede un apparato propagandistico di grande efficienza che s’impadronisce delle menti dei cittadini sin dai primi anni di vita e, in tali condizioni, è impossibile pensare a una transizione pacifica.
Donald Trump ha tutto sommato ragione nel ritenere che sia Pechino a detenere le chiavi per la soluzione del caso coreano. I cinesi possono, se lo vogliono, strangolare economicamente la Corea del Nord, e sono anche in grado di lanciare un attacco militare che avrebbe buone possibilità di successo. È ovvio, però, che Xi Jinping dovrebbe spiegare tale azione al Plenum del PCC, e i suoi oppositori potrebbero a quel punto giocargli dei brutti scherzi.