Contro la costruzione del consenso, per la bellezza

Camminiamo viandanti in questo andamento sovversivo della deriva, della cura e del rispetto. Dello sguardo acceso sul dettaglio nascosto, dell’ascolto. Senza riflettori. Con coscienza e benevolenza. Nella contemporaneità. Per la bellezza, tanto per citare Peppino Impastato. “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore “.

Rassegnazione che nasce dall’abitudine. Dalla paura, da ogni declinazione della paura. Dalla resa delle coscienze, resa incondizionata culturale prima di ogni cosa. Poi declinata politicamente, socialmente, mediaticamente in un mondo dove tutte le libertà ci appaiono a portata di mano, ma dove niente è possibile, né una rivoluzione delle coscienze, né una sovversione. Niente è possibile perché così è, anche se non è sempre stato. Così è e ci deve sembrare che così dovrà sempre essere. Magari mettendo le tendine decorose alle finestre dei palazzi squallidi delle speculazioni edilizie, curando le piantine sul davanzale. Come massimo della possibilità espressiva. Oppure con quella cultura tanto appariscente e mediatica, spettacolarizzata che funziona come abbellimento strategico dell’orrore.

Un assoggettamento al sistema che gestisce potere, finanza, politica, lavoro, divertimento: senza capire che cosa sta succedendo. Che cosa ci sta succedendo.

Se si insegnasse la bellezza, diceva Impastato. Ma come? Perché qui si nasconde un altro inganno: la convinzione che la bellezza, la poesia, l’arte in genere, da una parte appartengano al mondo dell’inutilità, dall’altra rappresentino il patinato status symbol di un ceto di collezionisti e di ricchezza, di furbetti del marketing e di consumatori. In una banalizzazione del tutto, che è anche peggio dell’ignoranza.

Come praticarla questa bellezza in modo che sia sovversiva e non ornamentale?

Torno al paradosso del passo. Condizione essenziale per rivoltare questo conformismo isterico fatto di paure, di libertà sfrenate e inutili, di successo votato al consenso, senza dolcezza, senza poesia, senza etica. Se si mostrasse come camminare per cogliere bellezza? Sarebbe forse più interessante, meno decorativo. Restituendo la strada ai propri passi e agli artisti, ai poeti sacri, ai bambini di ogni età col cuore puro che con coraggio e passione non si arrendono.
Perché non si arrendono? Per capacità o per eroismo? No, per impossibilità di farlo. Perché sono eretici. Sono barbari di purezza necessaria, non si vestono da eretici o da barbari secondo una moda. Sono poesia, sono barbarie, sono eresia, sono sovversione. Perché non esiste alcuna possibilità che l’arte, che il teatro, siano neutri, estetici, abbellimento strategico di sale buone e recitazioni di devastazioni culturali. O che l’arte sia solo marketing e sottile violenza di falsa redenzione, di falsa rivolta, di applicazione di successo al modello di intossicazione della cultura.
L’idea nefasta dell’epoca è che ogni azione culturale, artistica, poetica, sociale, debba essere finalizzata alla costruzione del consenso. Una convinzione che ha devastato giornalismo e cinema, ha messo in ginocchio la televisione, distrutto il teatro, fatto macerie della cultura, lasciandoci in ostaggio di un ceto intellettuale obbediente e senza spirito critico, quindi inutile per migliorare la nostra vita, la società, i luoghi dove abitiamo, la politica.

La rivoluzione, la nostra rivoluzione, non deve creare consenso ma dubbi. Non certezze assolute (securitarie, ottuse, da reportage dei media nelle periferie sconosciute della vita) ma senso critico. Un modo di esercitare pensiero, in libertà, critico, creativo, ma pensiero proprio.
Ecco, arte e poesia sarebbero necessari. Perché esprimono come principio attivo pensiero critico, dubbi e visione oltre il conformismo della realtà. Ma se gli artisti operano nel consenso tutto è inutile, diventano la stampella del sistema, collaborazionisti della bruttezza etica ed estetica, cantori eleganti dell’abbellimento strategico che serve a camuffare l’orrore.
Penso che ogni ragionamento non allineato, dissonante, critico e artistico possa – se non altro – far ritardare lo sviluppo del consenso, mentre l’inganno è necessario per farlo avanzare.

Non si insegni la bellezza, se questa bellezza è nella linea della conquista del consenso: si riprenda la strada semplice della bellezza. Non ci si culli come vasetti di gerani sul balcone di un mostro di cemento, si incendi la prateria. Il macigno della vita ci chiama alla battaglia. E la battaglia di questo tempo è per conquistare uno sguardo diverso, per spiazzare la realtà e poterla meglio osservare con occhi nuovi.

 

PEPPINO IMPASTATO  E LA BELLEZZA

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