Con cuore puro, poesia e coerenza contro i tempi oscuri

La poesia che maggiormente risuona nel mio cuore e mi avvicina alla vita, all’idea della bellezza, è sicuramente poco conosciuta. È una poesia di Attila Jozsef, bella, breve, incisiva, potente.

Vorrei essere un melo selvatico,
un grande melo selvatico,
vorrei che del mio corpo si saziassero
tutti i bambini affamati,
coperti dalla mia ombra

Vorrei essere un melo selvatico,
che quando sarà secco un giorno
e abbattuto dal padre inverno,
asciughi con la sua fiamma
le lacrime degli orfani.

Mi emoziona ogni volta leggerla e mi fa sognare. E toglie la patina di amarezza che alberga dentro di me, quella bolla esistenziale fatta di domande senza risposte, tradimenti, finzioni sceniche al posto della cura e dell’attenzione, paure e oscenità al posto di ogni gioia.

Ferma il tempo. Mi ricorda il mio cuore puro di quando ero un bimbo, di quando crescendo tenevo salda la visione di quello che è giusto e complicato e di quello che è comodo fare, di quello che anima il nostro destino di esseri umani e quello che lo travolge in una ricaduta di piccoli interessi di bruttezza efficace. La poesia ha questa forza sovversiva. In dieci versi ti spalanca l’universo di quello che avremmo potuto fare, di quello che saremmo potuti essere.

Ha un senso anche la storia di come abbia scoperto questo poeta ungherese. Il destino, si potrebbe dire. Visto che il libro bellissimo è arrivato nelle mie mani tramite mia madre che l’aveva comprato dopo una Festa dell’Unità negli anni Settanta. Elegante, l’ho amato da subito, immergendomi nella poesia di un autore sconosciuto come veleggiassi in mare aperto verso l’infinito. Perché così è stato e così è.

Ci ripenso sempre. La scoperta ha sempre un qualcosa di miracoloso: necessità solo di curiosità. E poi è pieno di tesori spettacolari. Così preferisco da sempre le piccole librerie ai colossi della vendita seriale di pubblicazioni, amo curiosare tra libri vecchi e cercare a fiuto – per il colore della copertina, per un dettaglio del titolo, perché ispirato da un passante – il capolavoro. Evitando accuratamente le strade troppo battute, la poesia seriale e la letteratura imposta dalla distribuzione.

Farò male. Ma non sono interessato a migliorare questo lato del carattere. Anzi, se potessi metterei su una libreria dove vendere solo capolavori non pubblicizzati, di case editrici ardite e di scrittori e poeti che non mettono mai piede in tv. Me lo sono segnato tra i buoni propositi del 2018. Perché per cambiare il mondo occorre fatica e dissenso. Con il consenso, al massimo ci sintonizziamo sull’onda maggioritaria economica e mediatica.

Concludo questo Polemos con un’altra poesia di Attila Jozsef che porto nel cuore. Che dedico a tutti i pazzi visionari che non si arrendono all’evidenza, ai barbari che non sanno che farsene dei guru mediatici e mantengono accesi i sogni da bambini.

Con due mani reggeva la tazza:
al calar della sera una domenica
in silenzio sorrise; si sedette
nella penombra un poco.
Si era portata in un casserolino
dalle Eccellenze, a casa, la sua cena;
ci siamo messi a letto, mi stupivo:
essi mangiano pentole piene.
Era mia madre, piccola, moriva presto:
le lavandaie muoiono presto;
le loro gambe si piegano per il gran peso,
la testa fa male dallo stirare.
È là il bucato, la loro montagna.
Ed è un giuoco di nuvole il vapore,
che calma i nervi: per cambiar aria,
c’è la soffitta per la lavandaia.
Vedo, si ferma col ferro da stiro;
il capitale ha infranto il suo fragile corpo;
sempre più esile divenne:
pensateci, proletari.
Lavare l’ha resa un po’ curva:
e non sapevo che era una donna giovane,
nel suo sogno portava un grembiule pulito,
e allora il postino la salutava.

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