
Scriveva The Economist, nel giugno di quest’anno a commento della vittoria elettorale di Rohani contro gli isolazionisti e i conservatori. «Rohani negli ultimi giorni della sua campagna elettorale ha dato una strigliata ai fanatici religiosi. Aveva bisogno di una vittoria decisa, ha detto agli elettori, per promuovere le libertà civili e affinché le guardie della rivoluzione, il sistema giudiziario, i mezzi d’informazione di stato, le associazioni religiose e tutti coloro che “sono una vergogna per la libertà” rendano conto del loro operato. I conservatori pii, ha detto, hanno “solo giustiziato e imprigionato, tagliato le lingue e cucito le bocche”. Questo messaggio ha vinto».
Poi la valutazione profetica. «Forse la speranza più grande per i conservatori è Donald Trump. Niente aiuta di più di un vero nemico. Loro si ricordano di come, sei mesi dopo la rielezione di un altro riformista, Mohammad Khatami, l’allora presidente americano, George W. Bush, ha inserito l’Iran nell’“asse del male”. Questo ha innescato un conflitto che ha contribuito nel 2005 all’elezione di Ahmadinejad, indubbiamente un conservatore».
«Trump visitando l’Arabia Saudita e Israele, ha promesso un confronto e un “bellissimo equipaggiamento militare” per i rivali regionali dell’Iran. Le sanzioni finanziarie degli Stati Uniti sugli investimenti trattengono i conservatori dal preoccuparsi troppo riguardo un’imminente competizione con l’occidente e il suo soft power. Sperando in dio, dicono, l’economia potrebbe collassare, delle battaglie potrebbero resuscitare il grande satana e quattro anni dopo potrebbero tornare al potere».
Oggi. Se le manifestazioni di protesta diventassero rivolta, finora non è accaduto, questo permettere ai Guardiani della rivoluzione, il braccio armato dei conservatori, di imporre la proclamazione dello stato di emergenza che li autorizzerebbe ad assumere tutti i poteri. Altro che i venti morti degli scontri di questa settimana, altro che qualche centinaio dei fermati.
Una innegabile sconfitta per Hassan Rohani, il presidente pragmatico e moderato che gli iraniani, soltanto a maggio hanno eletto per aprire la strada verso la liberalizzazione del regime dopo il patto sul nucleare, che ha cancellato le sanzioni internazionali.
«A quel punto i conservatori riassumerebbero il controllo del paese e accentuerebbero il riavvicinamento alla Russia sigillato dal sostegno dei due paesi al regime siriano -sostiene Bernard Guetta, analista di France Inter– L’aspirazione democratica dell’Iran e le democrazie occidentali avrebbero tutto da perdere da uno sviluppo di questo tipo». Il problema che qualcuno alla Casa Bianca non lo capisce.
La promessa marcia indietro di Trump sull’accordo per il nucleare, l’accusa ad Obama di essersi fatto imbrogliare, verrebbe rovesciata dai conservatori su Rohani, garantendosi la successione della guida suprema Ali Khamenei, la ‘guida suprema l’uomo più potente del regime, quando la sua malattia lo obbligherà a farsi da parte.
A Teheran, in Iran, è in corso una prova di forza forze tra i due schieramenti del regime su come uscire da una teocrazia assoluta che il Paese mostra ormai diffusamente di non sopportare più. «La realtà è che in Iran esistono due governi – sostiene l’analista canadese Gwynne Dyer su Internazionale-, Uno è quello eletto del presidente Hassan Rohani, un riformista che ha ottenuto un secondo mandato alle elezioni dello scorso giugno. L’altro è composto da religiosi ed estremisti islamici (come la Guardia rivoluzionaria) che servono la “guida suprema”, l’ayatollah Ali Khamenei. Ed è proprio l’ayatollah ad avere l’ultima parola nelle questioni sia teologiche sia politiche».
Col dubbio su chi, sul ‘fronte occidentale’ più oltranzista, Trump e Natanyahu per fare qualche nome, sia la controparte, l’avversario più comodo e preferito.
‘Due governi’ dice Dyer, ma un unico scontento. Più di tre milioni senza lavoro e la disoccupazione giovanile al quaranta per cento. Il prezzo di alcuni generi alimentari, come pollo e uova, è cresciuto quasi del cinquanta per cento. Nonostante l’accordo del 2015 sul nucleare che metteva fine alla maggior parte delle sanzioni internazionali contro l’Iran, le sanzioni finanziarie statunitensi rimangono in vigore. Con la maggior parte delle banche rimasta diffidente quando si tratta di gestire denaro dall’Iran o di concedere prestiti alle sue aziende, e quindi i benefici economici promessi dall’accordo non si sono mai concretizzati.
Naturale che le persone se la prendano con il governo quando l’economia non migliora, ma adesso le manifestazioni non riguardano più solo il caro vita e i posti di lavoro. Sono proteste contro l’intero sistema di potere, e gli slogan hanno carattere esplicitamente politico.