A chi conviene la crisi a Teheran

Cosa sta accedendo, perché accade e quali conseguenze potrà avere sull’Iran e sui delicati equilibri internazionali che a qual Paese sono legati?

I soli fatti certi

1. La protesta è esplosa a Mashhad, una delle città sante degli sciiti, innescata da un gruppo di religiosi e politici conservatori avversari del presidente Rouhani. Mashhad è la città di Ibrahim Raisi, il religioso che fu lo sfidante conservatore di Rouhani. Mashhad è uno dei bastioni dell’ex presidente Ahmadinejad.
2. Dunque, gli avversari conservatori di Rouhani, a soffiare sul fuoco dello scontento. Disagio, rabbia popolare per la crisi economica e soprattutto per i rincari dei beni di prima necessità, che spiegano la rapida diffusione della protesta in tutto il Paese.
3. Le motivazioni economiche si sono intrecciate con una contestazione politica del sistema della Repubblica Islamica, una evoluzione della contestazione di piazza che è rimbalzata addosso a quei conservatori che volevano danneggiare Rouhani.
4. Ora in piazza bruciano i poster dell’ayatollah Khamenei, e scandiscono slogan contro le scelte dei conservatori iraniani e l’esercito d’elite della regime, contro l’impegno militare in Siria, Iraq, Libano e contro i ‘pasdaran’, braccio armato della rivoluzione islamica iraniana.

La ‘legione straniera sciita’

L’Iran, dopo gli Stati Uniti e la Russia, è il Paese che ha investito di più in soldi e impegno militare nel ‘Grande Medio Oriente’, dalla Siria, al Libano, allo Yemen, all’Iraq. Secondo i conti di Vincenzo Nigro, su Repubblica, soltanto ad Assad sono stati garantiti prestiti per 4,6 miliardi di dollari, senza contare le forniture militari e le spese per sostenere gli ufficiali iraniani in trasferta, le migliaia di soldati di milizie sciite provenienti da Libano, Afghanistan e altri regioni asiatiche, una ‘legione straniera sciita’ molto efficiente ma anche molto costosa.

A chi conviene una crisi a Teheran?

All’Occidente e all’Europa la destabilizzazione dell’Iran non conviene, perché Teheran è il naturale baluardo contro l’Isis. Se ayatollah e pasdaran non avessero schierato forze sul terreno, in Iraq e in Siria, l’Isis avrebbe potuto espandersi maggiormente nella regione, ci ricorda Farian Sabahi, docente, storica e giornalista italiana di origini iraniane, su il Manifesto.
Che propone alcuni dettagli, utili e inconsuete chiavi di lettura. All’attore iraniano Babak Karimi -ad esempio- le manifestazioni di questi giorni ricordano «le primavere arabe, che poi si rivelarono null’altro che delle manovre di cambio regime mascherate da rivolta interna. «Non vorrei che questa gente finisse per fare da comparsa e prestanome di manovre altrui».
Manovre altrui, di chi?
Sempre Babak Karimi, persona attenta e di buona memoria, ricorda come in questi mesi il senatore repubblicano Tom Cotton dell’Arkansas, consigliere del presidente Trump, abbia più volte invocato un intervento americano a sostegno del dissenso interno all’Iran. Preveggenza o altro? L’eterno e spesso legittimo sospetto di interferenze dei servizi americani, israeliani e sauditi.

Ma gli Stati Uniti dove vanno e con chi stanno?
Gli interessi convergenti dell’Occidente e dell’Iran contro l’avanzata dell’Isis e dell’integralismo terrorista sunnita sono stati recentemente messi in discussione dalle decisioni di Trump contro l’accordo nucleare. Critiche in parallelo con i falchi di Teheran, ognuno a denunciare il proprio svantaggio. Da  parte Usa un colpo duro all’economia iraniana e al moderato Rouhani.
E torna la domanda sul ‘Cui prodest’, a chi giova, a chi conviene la crisi della Repubblica islamica dell’Iran? Di certo non all’Europa, dice abbastanza compatta l’Unione da Bruxelles. Risposta contraddittoria e incerta invece da oltre oceano, versione Donald Trump.
Ritorniamo a Fabian Sabahi, «Di certo la crisi iraniana fa il gioco di Israele, il cui obiettivo di lungo periodo è un Medio Oriente frammentato in stati nazione su base etnica e confessionale, troppo piccoli per rappresentare una minaccia per lo stato ebraico».

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