Quel capodanno dal 1917 al 18, dramma centenario

L’ultimo Natale in trincea
altri profughi per le strade italiane
La Prima Guerra mondiale
nel suo momento più drammatico

Gli ultimi attacchi austro-tedeschi per sfruttare il successo di Caporetto terminarono nel mese di dicembre 1917, quando il rigore dell’inverno fermò tutti gli altri propositi. La sconfitta italiana era stata pesante, ma si intravvedeva un clima diverso con cui affrontare il nuovo anno e tuttavia parlare di ottimismo era ancora del tutto inappropriato. Oltre a più di duecentomila prigionieri e un’ampia zona di territorio, erano stati perduti ingenti materiali bellici e soprattutto il raccolto agricolo del 1917: in altre parole per larghi strati della popolazione ciò significò una stretta ulteriore nel razionamento dei generi alimentari e cioè la fame. Difficile immaginare quindi che si parlasse già del 1918 come «l’anno della vittoria», come invece avvenne in seguito.

Particolarmente grave fu la situazione dei profughi. Mentre le guerre del Risorgimento erano state brevi e numerose, per la prima volta dal 1915 al 1918 si manifestò la ‘guerra totale’, un conflitto che coinvolse non solo i soldati al fronte, ma anche la popolazione civile quasi nella sua totalità. I conti fatti a posteriori forniscono cifre drammatiche che fanno riflettere: al di qua del Piave ripararono duecentocinquantamila persone, mentre quasi un milione rimase ad affrontare la fame nei territori invasi. Come spesso avviene dopo una fase iniziale di buona accoglienza, dopo cioè altisonanti dichiarazioni di fraterna solidarietà nazionale, le cose rimasero precarie, quando non peggiorarono. A farne le spese furono soprattutto le fasce più deboli della popolazione: donne, bambini e gli anziani che erano fuggiti.

Dagli archivi – molti dei quali riscoperti recentemente – emergono migliaia di vicende di sofferenza raccontate in lettere, petizioni, suppliche e istanze. Due sorelle abitanti nella zona di Feltre, ambedue insegnanti elementari e rifugiate ‘negli Abruzzi’ (come si diceva un tempo), chiedono di poter svolgere un’attività che consenta loro di sopravvivere e lamentano lo scarso interesse del locale comitato ‘per l’assistenza’; un sindaco è accusato di aver acquistato a un prezzo inferiore al valore effettivo anelli ed orecchini delle profughe; un comitato si trasforma in agenzia di collocamento, ma asseconda con eccessiva compiacenza le richieste dei notabili del luogo che richiedono personale femminile ‘di bella presenza’ da adibire ai lavori domestici; uno spregiudicato imprenditore impegnato in forniture per l’esercito licenzia venticinque operaie per assumere altrettante profughe con un salario inferiore.

Il quadro che si ricava non sembra confortante, ma non mancarono comitati locali che furono in grado di assicurare un lavoro dignitoso alle profughe prima organizzando laboratori e poi fungendo da intermediari nella fornitura di calzature e indumenti all’esercito. Altra esperienza positiva fu il caso di Firenze: per accogliere nelle scuole tutti i bambini rifugiati in città, furono organizzati doppi turni scolastici (cioè sia la mattina che il pomeriggio), anche se il sovraffollamento ebbe ripercussioni sulle condizioni igieniche e in ultima analisi sulla salute degli studenti. Questi furono alcuni aspetti del 1918 tra i profughi veneti o friulani sparsi un po’ in tutt’Italia e sradicati dai loro paesi. Era normale, ad esempio, che da un borgo della Carnia si fosse finiti nel Tavoliere delle Puglie. Mancava ancora però l’ultima prova di quell’anno: l’anno della vittoria sarebbe stato ricordato in seguito anche come l’anno della ‘spagnola’. La terribile epidemia di influenza avrebbe mietuto vittime proprio tra i profughi, indeboliti più di altri da tutte queste vicissitudini.

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