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«Il primo anno di Trump è passato, ma il peggio deve ancora venire», titolava un importante settimanale per la ricorrenza. Previsione facile.
Suprematismo bianco, paranoia religiosa, feticismo delle armi, negazionismo sul clima, e ora Internet classista e parole tabù. L’obiettivo di Trump e dei suoi principali consiglieri ormai appare chiaro, è la guerra alla sfera pubblica, al pubblico interesse, che siano leggi anti-inquinamento o parole che evocano diversità e che chiedono diritti, da rimpiazzare con il potere incontrastato del mercato. La decostruzione dello Stato che impone regole, attacco al welfare e ai servizi sociali, la corsa interna ai combustibili fossili e una guerra di civiltà contro gli immigrati e quant’altro stiamo vedendo.
La shock economy, la politica dello shock che non colpisce soltanto nell’economia. E siamo alle parole vietate e al privilegio Internet.
I fatti: velina da Anni Cinquanta, la Casa Bianca proibisce l’uso di sette termini nei documenti ufficiali in materia di sanità. Parole vietate: «feto», «transgender», «diversità», «vulnerabile», «diritto», «supportato da prove scientifiche», «basato sulla scienza».
La lista nera, racconta il Washington Post, sarebbe venuta fuori durante la riunione di una delle agenzie del sistema sanitario americano. Si parla di contabilità, quando la funzionaria del ministero illustra le nuove direttive sul lessico da usare, per esempio, nella preparazione dei bilanci. Medici e operatori allibiti.
Ambasciator non porta pena, si difende la malcapitata rappresentante dell’amministrazione, che prova poi a spiegare il non senso. Reazioni politiche e sulla rete. Ma in realtà, da almeno un paio di anni la destra più radicale e lo stesso Donald Trump hanno sovente sbeffeggiato la cultura del «politicamente corretto». I bagni nelle scuole o negli edifici pubblici, ad esempio. I transgender devono usare la toilette delle donne, degli uomini, una terza solo per loro o quella che preferiscono? Eppure in campagna elettorale Donald Trump aveva cercato anche il consenso della comunità Lgbt, (lesbian, gay, bisexual, transgender). Arrivato alla Casa Bianca la cancella dall’ufficialità.
In realtà, non è la prima volta, dopo l’insediamento di Trump, che nelle agenzie federali si pone il problema della terminologia da usare in questioni relative l’orientamento sessuale, l’identità di genere, il diritto all’aborto, il cambiamento climatico, che avevano ampia visibilità con la presidenza Obama. Non si parla più di orientamento sessuale e identità di genere. Il dipartimento che si occupa di Infanzia e Famiglia ha rimosso le pagine che fornivano informazioni sui servizi disponibili per le persone Lgbt e le loro famiglie. Mistero su come il centro nazionale per l’Aids e le malattie sessualmente trasmissibili possa evitare di usare la parola transgender lavorando sulla prevenzione dell’Hiv.
Un’altra eredità di Obama presa a picconate è la Net Neutrality, il principio dell’accesso online uguale per tutti. La nuova linea della Federal Communications Commission apre la strada a un Internet a velocità differenziate. Una Rete di qualità e tariffe che variano a seconda del cliente, più paghi meglio comunichi in rete. Fine del presupposto che la Rete sia una ‘utility’, un servizio di base, essenziale per tutti i cittadini, d’interesse pubblico, quindi sottoposto a una vigilanza pubblica. Sino a ieri, per le aziende di ‘Internet service’ che gestiscono le “autostrade” digitali, il divieto di discriminare fra clienti. Se diventa un servizio privato molto meno regolato, si apre uno scenario molto più sconvolgente di quanto sino a ieri immaginato.
Scontro tra Old Economy e New Economy. Con Trump vince l’Old, i proprietari delle torri di trasmissione telefonica e wi-fi, oligopolisti del diritto di accesso online, le autostrade digitali, e negli Stati Uniti parliamo di due o tre concorrenti al massimo. Perdono la New Economy e la Silicon Valley, che su quelle autostrade fa viaggiare servizi e contenuti di ogni genere. Gli sconfitti si chiamano Apple, Google-YouTube, Amazon, Facebook, Netflix. E’ legittimo sospettare -osserva Rampini da New York- che le lobby delle telecom siano meno antipatiche all’Amministrazione Trump, rispetto ai colossi digitali della West Coast che passano per essere liberal.
Ovviamente ricordiamoci che né Google né Facebook, né Amazon né Apple sono molto credibili come paladini del cittadino. Rete libera, sì, ma per loro minor guadagno che andrà ad altri predatori. Vero anche che, nella favola ‘fruitore finale’, nominalmente il cittadino, quando le telecom fattureranno più caro un videostreaming veloce dello sport o delle serie tv, i venditori di quei prodotti si rifaranno su di noi. Per ora solo negli Stati Uniti. Quando in Italia?