
Un’affermazione che può sembrare una battuta (mica tanto): di questi tempi la politica estera americana pare studiata da Netanyahu, il premier israeliano. E Trump? Gli tiene bordone. Intendiamoci, tutti i Presidenti Usa si sono divisi pane e companatico con lo Stato ebraico, ma lo “sbilanciamento” dell’attuale inquilino della Casa Bianca pone numerosi interrogativi. Prendiamo la questione di Gerusalemme capitale “totale” d’Israele. Il colpo di mano era stato preparato da tempo. Una cambiale presentata all’incasso dalla lobby ebraica al Congresso? Forse. Trump ha debiti di riconoscenza molto grossi con Netanyahu, per le continue imbeccate ricevute dagli “amici” del Mossad, i servizi segreti israeliani.
Certo, l’improvvida sparata di Trump è sembrata manna dal cielo per il Califfo, che proprio alla Palestina guardava per radicalizzare lo scontro con i “crociati”, trasferendolo dal terreno politico a quello religioso. Basta così per ora? Macchè. La Casa Bianca starebbe premendo sull’acceleratore per gettare lo scompiglio in casa del nemico numero uno di Gerusalemme: l’Iran. Lo spiffero è vecchio, ma è tornato a circolare proprio in questi giorni nei Palazzi che contano. E lo scenario era stato già anticipato in un articolo rivelatore pubblicato alla fine di giugno in uno dei più prestigiosi siti di analisi americana (“Politico”).
Dunque, gli Stati Uniti pensano a un cambio di regime a Teheran, che metta in un angolo l’attuale teocrazia e lasci il campo a un governo che abbia meno mire espansionistiche nel Golfo Persico. Con grande gioia, soprattutto, dell’Arabia Saudita e di tutto il blocco sunnita. Israele, da parte sua, ha il chiodo fisso del Golan. E, per la proprietà transitiva, di Hezbollah e dei suoi grandi sponsor sciiti. Gli ayatollah. Dentro l’Amministrazione Trump si starebbero confrontando due linee: una (che pare vincente) sparata contro i politici col turbante; l’altra, forse minoritaria, molto più prudente, che ricorda il fallimento del colpo di Stato sponsorizzato nel 1953 dalla Cia.
Forse fu proprio in base a questo “undicesimo comandamento” (“ogni rivoluzione fallita provoca una restaurazione ancora più forte”) che Obama, nel 2013, alle Nazioni Unite, proclamò solennemente il principio della non interferenza Usa negli affari interni di Teheran. Tutto mangiato e già digerito. Adesso diversi big Repubblicani chiedono le teste dei clerici sciiti che governano l’Iran. Il senatore dell’Arizona, Tom Cotton, ha detto che nessun Paese può sopportare un regime dispotico come quello teocratico iraniano. Non solo. Ma ha parlato anche della necessità di sostenere l’opposizione interna e di studiare anche la possibilità di realizzare azioni “sotto copertura”.
Cioè, in pratica, di fare intervenire le barbefinte della Cia. Che, come già scritto, non è che abbiano un curriculum coi fiocchi sull’Iran. Tra Mossadeq, lo Scià Pahlavi e la sottovalutazione del regime khomeinista, gli 007 di Langley ne hanno combinate più di Giufà. Metteteci anche il patatrac del blitz per la liberazione degli ostaggi dell’ambasciata e il quadretto è completo. Ma il discorso ha anche preso una deriva molto più scomoda. Anzi, azzardosa. Qualcuno già parla di gettare benzina sul fuoco delle rivolte etniche. Arabi, turkmeni e baluchi sarebbero pronti a saltare il fosso. Aspettano solo un segnale da Washington. E il salvadanaio con i dollari per le “lotte per l’indipendenza “.
Insomma, un’altra americanata che rischia di fare esplodere conflitti e attriti sepolti sotto la polvere della storia. Comunque, anche il Segretario di Stato, Rex Tillerson, notoriamente abbastanza prudente, avrebbe sposato il piano per il “ribaltone” iraniano, pronunciandosi per il “cambiamento di regime”. Deciso dagli Stati Uniti, è ovvio, alla faccia della (molto relativa) democrazia iraniana e del principio di non ingerenza e autodeterminazione. Certo, il fallimento di un piano del genere comporterebbe rogne a cascata multipla, con ripercussioni geo-strategiche non indifferenti. Dal possibile blocco dello Stretto di Hormuz (la “porta del greggio” nel Golfo Persico), ai ritorni di fiamma della guerra in Siria, fino alla destabilizzazione del Libano.
Cosa che potrebbe comportare l’entrata in guerra di Israele. Senza dimenticare lo Yemen, campo neutro dello scontro tra sauditi e iraniani nella Penisola Arabica. E allora? Beh, fatti quattro conti e tirate le somme, forse è meglio che Trump non muova le sue terga dalla poltrona dello Studio Ovale e, per ora, lasci in pace gli ayatollah.