
Per ora i governi arabi si sono limitati a proteste di circostanza e cercano di capire dove vogliano andare a parare Trump e Netanyahu. Il colpo di mano su Gerusalemme capitale “totale” d’Israele era stato preparato da tempo. Una cambiale presentata all’incasso dalla lobby ebraica al Congresso? Forse. Anche se la Casa Bianca ha debiti di riconoscenza molto grossi per le continue imbeccate ricevute dagli “amici” del Mossad, i servizi segreti israeliani. Gli unici a darsi una mossa a mo’ di rivolta sono stati gli uomini di Hamas, che a Gaza, durante i disordini scoppiati, hanno avuto quattro morti, mentre nei Territori occupati della Cisgiordania i feriti sono ormai oltre i mille.
Certo, l’improvvida sparata di Trump sembra manna dal cielo per il Califfo, che proprio alla Palestina guardava per radicalizzare lo scontro, trasferendolo dal terreno politico a quello religioso. Ma anche Hamas, tutto sommato, è guardinga. Le sue milizie hanno sparato solo razzi di piccolo calibro verso Beersheba, Ashkelon e Ashdor. Uno è esploso in una strada di Sderot e un altro è stato intercettato da una batteria di missile Iron Dome. Gli israeliani hanno risposto con raid aerei mirati che hanno causato, come detto, alcune vittime tra gli attivisti di Gaza. Gli analisti di Gerusalemme, però, non appaiono granché preoccupati dal ruolo che potrà giocare Hamas in una eventuale rivolta.
Hamas è a corto di quattrini e la sua popolarità tra i palestinesi è in calo. Non è un caso che Abu Mazen abbia rifiutato di imbarcare la sua “Autorità” in una protesta congiunta con le milizie della Striscia. Anche Mazen è stato prudente, parlando della necessità di intavolare trattative dirette. Qualcosa però si muove nella galassia dei gruppi armati della regione. Tanzim, braccio militare di Fatah, potrebbe coalizzarsi con Hamas, gli estremisti del Fronte Popolare e con Jihad Islami, sostenuta dall’Iran. L’Autorità Palestinese però resta guardinga e teme che Hamas voglia sfruttare il pretesto offerto da Trump per mischiare alla “grana” di Gerusalemme anche tutte le questioni in sospeso che riguardano Gaza.
Abu Mazen, infatti, non si fida di Haniyeh, il “dominus” della Striscia e teme che un’eventuale ribellione possa danneggiare la strategia egiziana di riportare Gaza sotto il governo dell’Autorità. D’altro canto, anche le piccole rivolte anti-Trump scoppiate nella West Bank non hanno raggiunto le intensità dei tempi passati. In Israele ritengono che anche gli ayatollah, nonostante le pressioni del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, abbiano poche intenzioni di spedire uomini a morire per Gerusalemme. Attualmente Teheran è concentrata sull’evoluzione della crisi yemenita e sul confronto, molto rischioso, con l’Arabia Saudita. Non vuole farsi distrarre da pericolose avventure su altri scacchieri.
Anche nella sua riunione di ieri al Cairo, la Lega Araba ha concluso poco e niente. Si è parlato più di dollari e di finanziamenti “solidali” verso alcuni Paesi, che piuttosto della crisi aperta dalla presa di posizione di Trump. Alquanto inferocito pare sia uscito dall’incontro il re di Giordania Abdullah, che si è visto tagliare drasticamente i “rifornimenti” in arrivo da Riad e da Abu Dhabi. I sauditi erano rappresentati solo dal Principe Khaled bin Salman, mentre il Presidente egiziano, Abdel-Fatteh El-Sisi, manco si è fatto vedere. Né sorte migliore ha avuto l’incontro d’emergenza convocato alle Nazioni Unite, conclusosi con un buffetto sulla guancia di Trump.
Francia, Germania, Italia, Svezia e Regno Unito hanno votato un documento in cui si dicono “in disaccordo” (e ti pareva) con le decisioni della Casa Bianca. I cinque hanno sostenuto la necessità di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi per decidere lo status della capitale. Lo stesso Presidente americano ha cercato di gettare acqua sul fuoco, con un invito “alla moderazione”. Una sorta di appello a chiudere le porte della stalla dopo che i buoi sono scappati. Inoltre, ha dichiarato su “Twitter” che anche altri capi della Casa Bianca (tra cui Obama, che lo ha paragonato a Hitler) si sono espressi a favore di Gerusalemme come capitale di Israele.
Confermato che il Presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) non incontrerà il vicepresidente Usa Mike Pence nel corso del viaggio di quest’ultimo in Medio Oriente. Lo ha detto il consigliere diplomatico di Mazen, Majdi Khaldi, affermando che “gli Usa hanno superato la linea rossa” su Gerusalemme.