Tribunale dell’Aja, ex Jugoslavia, giustizia e processi di guerra

«Dobbiamo liberare questo pianeta dall’oscenità per cui ci sono più probabilità di portare in giudizio chi ha ucciso un essere umano piuttosto che chi ne ha uccisi 100.000», José Ayala Lasso, Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani al tempo della costituzione del Tribunale.

Il 6 ottobre 1992 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite votò all’unanimità la risoluzione 780 che istituiva una commissione di cinque esperti incaricati di raccogliere testimonianze sulle «gravi violazioni» del diritto umanitario commesse nella ex Jugoslavia. Il primo passo per la costituzione di un tribunale internazionale che – nelle intenzioni – avrebbe dovuto essere simile a quelli di Norimberga e Tokyo che giudicarono i criminali della guerra mondiale. Il 22 febbraio 1993 fu approvata – su proposta francese – la risoluzione 808 che auspicava la costituzione di un tribunale per «perseguire le persone responsabili di serie violazioni dei diritti dell’uomo nel territorio della ex Jugoslavia a partire dal 1991». Al contrario però delle corti di Norimberga e Tokyo, istituite dopo la conclusione della guerra, i combattimenti in Bosnia continuavano e – sebbene si ritenesse che un tribunale internazionale avrebbe costituito una sorta di deterrente – un massacro come quello di Srebrenica avvenne lo stesso.

L’altra anomalia era che, pur nascendo nel contesto delle Nazioni Unite, si trattava di un organismo ‘ad hoc’, non espressamente previsto cioè dalla Carta costitutiva. Poiché esisteva già la corte internazionale dell’Aja, incaricata di dirimere i conflitti tra gli Stati, si sarebbe affiancato ad essa il nuovo tribunale con «competenze territoriali» per iniziativa del Consiglio di sicurezza, ma non dell’Assemblea plenaria. Definito all’epoca «strumento eccezionale per gestire circostanze eccezionali», la creazione di questa corte sollevò subito varie perplessità. “Times” di Londra osservò come i tribunali d Norimberga e Tokyo fossero stati istituiti dalle potenze che avevano combattuto la guerra, mentre gli stati membri del consiglio di sicurezza al contrario non avevano voluto combatterne alcuna. In secondo luogo, poiché alcuni personaggi coinvolti nel conflitto e già accusati di crimini di guerra, avevano comunque preso parte a trattative di pace sottoscrivendole, e si temeva che il giudizio della corte avrebbe finito per esserne influenzato: «Lasciarli liberi – concluse sconsolato “Times” – è il prezzo della pace».

Firma dell’accordo di pace sulla Bosnia, Parigi 1995

Di tutt’altra opinione fu ad esempio il giudice sudafricano Richard Goldstone, primo procuratore capo, secondo il quale, al contrario, la corte avrebbe potuto rispondere alla domanda di giustizia sollevata da parte delle vittime della pulizia etnica, a condizione però che il lavoro del tribunale avesse il necessario appoggio degli Stati e dei media (e sappiamo quanto la collaborazione tra stati e tribunale sia stata complessa e a volte tesa). Proprio Goldstone in particolare sottolineò – non senza una certa visione utopistica – anche il ruolo che avrebbe potuto rivestire il tribunale nel processo di pacificazione dopo la guerra: la ‘responsabilità individuale’ degli imputati, quando sancita da una sentenza di condanna, avrebbe fatto comprendere a tutti che non si intendeva processare un popolo intero, ma solo alcuni criminali responsabili, e in tal modo si sarebbero anche affievoliti i sentimenti di odio e risentimento favorendo una pacifica convivenza.

Indubbiamente, dal punto di vista della giurisprudenza internazionale, l’attività del tribunale è stata fortemente innovativa, anche se sottoposta a numerose critiche di segno opposto dai diversi schieramenti. Rispetto Norimberga e Tokyo, ad esempio, si sono dilatati gli spazi concessi alla difesa degli imputati e parte della giurisprudenza risalente al secondo dopoguerra (soprattutto riguardo le circostanze attenuanti) è stata innovata, mentre altre critiche sono state di natura squisitamente politica accusando il tribunale di gravi parzialità. Era infatti la procura a decidere quale procedimento portare davanti alla corte. Il lavoro compiuto resta comunque notevole e documentato da oltre due milioni e mezzo di pagine, prodotte in più di diecimila giornate di udienze ascoltando più di quattromila testimoni. Insomma un monumento rispetto Norimberga, ma al quale sono state rivolte ben altre critiche, soprattutto ora nel momento dei bilanci.

Non si criticano tanto i reati contestati (genocidio, crimini contro l’umanità, violazioni delle legge e delle consuetudini di guerra e gravi violazioni delle convenzioni di Ginevra), quanto piuttosto il fatto che la maggioranza degli imputati appartenga ad una delle parti in lotta come si fosse voluto dare un indirizzo politico alle sentenze. In più di centosessanta processi condotti, la maggioranza dei novanta condannati a varie pene detentive, dall’ergastolo a dieci anni di reclusione, è serba e riguarda fatti accaduti nella stragrande maggioranza in Bosnia o in Kosovo. A distanza, ma con un diverso ordine di grandezza, seguono casi avvenuti in Croazia – e perpetrati da croati – e uno solo in Macedonia. Pochissimi i processi con imputati di parte musulmana. Nonostante l’entusiasmo del procuratore Goldstone l’attività svolta sembra ora diventare una delle tante pagine di storia dei Balcani fatalmente destinata a produrre conseguenze non volute.

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