
Un lungo reportage sul Washington Post, sperando che Souad Mekhennet e Joby Warrick, gli autori, raccontino di timori immotivati. «The jihadist plan to use women to launch the next incarnation of ISIS» (torna il nome storico precedente all’Islamic State). Una sintesi del racconto fra le donne del califfato in fuga della guerra ma non tutte arrese. Si parte ovviamente da una di loro, ‘Zarah’ fuggita sei mesi fa attraverso il confine tra Siria e Turchia e ora in Marocco. Il marito combattente ucciso. Zarah giura che un giorno i suoi figli reclameranno il loro paradiso islamista rubato. «Cresceremo figli e figlie forti e diremo loro della vita nel califfato».
Non solo Zatah temono i funzionari anti-terrorismo. Negli ultimi mesi sono centinaia le donne che hanno abbandonato il califfato per tornate ai Paesi natali e che trovano rifugio nei centri di detenzione o nei campi profughi lungo la strada. Alcune sono madri con bambini piccoli che affermano di essere stati spinte ad andare in Iraq o in Siria per stare con i loro mariti. Ma una inquietante parte di loro sembra aver abbracciato l’ideologia del gruppo rimanendo fedele ai suoi obiettivi. Dal Nord Africa all’Europa occidentale una sfida inaspettata, per chi si aspettava un afflusso di uomini rimpatriati e si è invece trovato a decidere il destino di decine di donne e bambini.
Poche le donne che hanno combattuto in battaglia, ma tutte sono potenziali minacce. Sappiamo che i leader dello Stato islamico hanno recentemente dato istruzioni alle donne per partecipare ad attacchi oltre a crescere futuri terroristi. «Ci sono stati sicuramente casi di donne trascinate all’ISIS, ma ce ne sono altre che sono state radicalizzate che hanno assunto ruoli importanti», afferma Anne Speckhard, direttore del Centro per lo studio dell’estremismo violento. Una nativa del Kosovo, intervistata in Marocco ha ammesso di essere tornata solo perché era nelle ultime settimane di gravidanza e voleva cure mediche migliori. Per poi tornare e crescere figli martiri.
In Marocco, sono stati poco più di 1.600 i combattenti maschi in Iraq o Siria dal 2012, assieme a un numero quasi uguale di donne e bambini. Molti morti e relativamente pochi i combattenti maschi tornati a casa. Ma i consolati stranieri in Turchia sono stati assediati da centinaia di donne e bambini -mogli, madri e figli di combattenti dello Stato islamico- che chiedono visto e aiuti per tornare a casa. Decine di loro -come Zarah, sono uscite ed entrate dal paese inosservate – mentre decine di altre sono in attesa in centri di detenzione in Turchia mentre i loro casi vengono esaminati. I rimpatriati che hanno commesso reati andranno in prigione, ma le loro donne?
La maggior parte delle donne che sono tornate finora sembrano intenzionate a riprendere le loro vecchie vite e a lasciare dietro di sé lo Stato islamico, dicono i funzionari. Ma la paura tra gli esperti di sicurezza è che alcuni dei rimpatriati continuano a mantenere punti di vista radicali e cercheranno Stato islamico. Storie laceranti, di paure e vite infami tra le reduci dallo Stato Islamico nella interviste raccolte dai reporter del WP. ‘Pentimento’ credibile? La maggior parte delle donne intervistate -rilevano i reporter- continua a indossare l’abito più severo imposto dal gruppo militante islamista, a partire dal niqab, la pesante tunica che copre tutto tranne gli occhi.
Torna la storia di Zarah. Vedova vent’anni, si risposa e ottenne un posto di lavoro nel servizio dei media dello Stato islamico, dove le donne escluse dai combattimenti lavoravano alla propaganda del gruppo. E narra dell’esempio di Fatiha Mejjati, la vedova di 56 anni di un terrorista marocchino diventato il capo della brigata al-Khansaa dello Stato islamico, un distaccamento tutto al femminile che aggira le restrizioni del gruppo contro il trucco o la mostra pelle nuda. La reputazione di Mejjati come severa esecutrice dei codici del gruppo è supportata da testimoni e documenti giudiziari che descrivono le fustigazioni delle donne sospettate di infrangere le regole.
Negli ultimi mesi, un numero crescente di donne ha partecipato ad operazioni militari, sia all’interno del califfato che nei loro paesi d’origine. I leader dello Stato islamico hanno hanno inizialmente scoraggiato le donne dal servire come combattenti o attentatori suicidi. Ma con il crescere delle perdite, il gruppo ha dato alle donne maggiori spazi militari. Esempio recente, i comandanti hanno ordinato a dozzine di donne kamikaze di lanciarsi contro le truppe governative a Mosul. Nel settembre 2016, i leader siriani del gruppo hanno guidato una cellula di cinque donne francesi nel tentativo fallito di portare a termine un attentato terroristico nel centro di Parigi.
Un saggio del mese scorso nell’organo di propaganda ufficiale dello stato islamico, al-Naba, ha cercato di radunare più donne nella lotta invocando una famosa guerriera dell’antica storia dell’Islam: Nusaybah po ‘Ka’ab, una tribù del settimo secolo che prese la spada quando il profeta Maometto fu circondato da nemici in battaglia. «Non è strano per le donne musulmane oggi avere il senso dell’onestà, del sacrificio e dell’amore per la fede, proprio come le donne mujahid che hanno sostenuto l’Islam», traduce il SITE Intelligence Group, con Rita Katz: «Non sarei sorpresa di vedere un aumento delle donne negli attacchi ispirati o coordinati da ISIS in Occidente e altrove».
Anticipando tale svolta, diversi governi europei hanno iniziato a rafforzare le leggi per trattare con le donne rimpatriate. In Belgio, Francia e Paesi Bassi, l’accusa e la reclusione sono quasi certe per uomini e donne che si sono uniti al califfato e ora vogliono tornare a casa. Il governo belga, dopo aver inizialmente permesso a donne e bambini di tornare nei loro vecchi quartieri, sta ora istruendo procedimenti giudiziari per 29 donne che chiedono il rimpatrio dall’Iraq o dalla Siria. La percezione di donne vittime è svanita dopo l’attacco del marzo 2016 a Bruxelles e recenti casi in cui i bambini di famiglie ritornate cercavano di radicalizzare i compagni di classe.
La preoccupazione degli esperti di sicurezza europei è che alcuni rimpatriati manterranno le loro idee radicali, anche dopo aver trascorso del tempo in prigione. Timori sostenuti da anni di ricerche che dimostrano la difficoltà di invertire sugli effetti dell’indottrinamento estremista. Gli studi confermano inoltre che le madri hanno un’influenza maggiore quando si tratta di instillare punti di vista radicali nei bambini, spiegano gli esperti. «Dato che i rimpatriati sono per lo più donne giovani, c’è la possibilità di avere ancora più figli nei prossimi anni, e una possibilità reale che queste donne possano crescere i loro figli in una versione molto radicale dell’Islam».