
Di fronte ai 235 morti della moschea, c’è chi parla del Sinai come del nuovo ‘Califfato del deserto’, o chi lo vede come nuovo Afghanistan alle porte dell’Europa. Dato certo è che lo Stato islamico e i suoi miliziani in rotta da Raqqa e Mosul, sposta le sue forze nel Sinai, si scontra e a volte tratta con le tribù beduine dell’area o con la fazioni nordafricane di al-Qaeda, e crea le sue nuove trincee nelle aree desertiche del Sinai egiziano, o quelle tra Libia, Tunisia, Algeria. Dove non c’è uno Stato in grado di combatterli seriamente.
Il ‘Califfato del deserto’, sostiene Umberto De Giovannangeli sull’HffPost, è anche una sfida, mortale all’Egitto del generale-presidente al-Sisi. L’attacco alla moschea, ultima sfida, nella successione di attacchi ad avamposti militari e stazioni di polizia, e minaccia alle località turistiche per occidentali. Ad agire nel Sinai, secondo le prime valutazioni egiziane, sono una parte dei foreign fighters fatto uscire da Raqqa. Obiettivo politico, dare una immagine di forza dopo le sconfitte subite in Siria e Iraq. E raccogliere ciò che resta della Fratellanza musulmana contro al-Sisi.
Il nuovo Afghanistan alle porte dell’Europa, ci dice Repubblica. Lo Stato egiziano nella penisola che arriva fino ai confini di Israele deve una milizia che fa riferimento all’Islamic State starebbe accogliendo i combattenti in fuga da Siria e Iraq, scontrandosi con gli eredi di Al Qaeda. Partita tra fazioni estremiste islamiche, l’aspetto politico ritenuto più rilevante. Nelle scorse settimane il capo terrorista Al-Sinawi, che segue la corrente fondata da Osama bin Laden, ha accusato i seguaci dell’Isis di aver attaccato altri musulmani nel Sinai, non solo di azioni contro il comune nemico rappresentato dal regime egiziano.
Ed ecco l’Afghanistan mediterraneo. Secondo gli analisti, riporta Vincenzo Nigro, il messaggio di Al Sinawi (l’uomo del Sinai), formalizza uno scontro tra fazioni diverse di integralismi islamici. Lo stesso scenario che sta fronteggiando Al Qaeda in Afghanistan insieme ai talebani, ovvero l’ingresso di una nuova formazione terroristica islamista che cerca uno spazio vitale sul territorio di uno stato musulmano incapace di controllare il territorio, come è quello egiziano. Uno dei problemi, la reale capacità dell’esercito e della polizia del Cairo di controllare il terrorismo nel deserto.
L’esperto del «Carnegie Endowment for Peace» di Washington al Corriere della Sera: «Il riemergere dell’Isis nel sud della Libia e in Egitto e uno dei rischi maggiori nella regione». Secondo Frederic Wehrey, due i fatto di rischio. La repressione degli islamisti in Egitto, diventati un movimento sotterraneo, aumenta il rischio che riemergano con un’insurrezione. E il Sinai è completamente fuori controllo. «Molti governi arabi nutrono l’estremismo che dichiarano di combattere, e lo fanno cercando la protezione dell’America», riconosce Wehrey con Viviana Mazza. Regimi arabi autoritari e politica Usa inadeguata.
«Gli Stati Uniti dovrebbero insistere, come condizione nel fornire armi e aiuti contro il terrorismo, che il governo egiziano adotti una strategia per affrontare anche i cronici problemi economici e politici che hanno portato all’emarginazione della popolazione del Sinai. La lotta sarà infinita se continuerà a basarsi solo su tattiche di antiterrorismo». Infine l’analisi critica della recente polotica Usa in medio oriente. «Con Trump, c’è stato un ritorno alla dottrina di Nixon, alla scelta di schierarsi con una parte nelle dispute regionali. Secondo alcuni l’appoggio Usa dovrebbe portare gli alleati ad agire in modo più responsabile, ma è successo il contrario».