Contro le disneyland di pietra, storia e uomini

Che cos’è una città, che cosa un paese? Un luogo geografico? Un luogo dell’abitare? Un tessuto di persone che costituiscono una comunità di lavoro, passione, vita, ozio, bellezza e futuro per i figli? Oppure una location, una Disneyland di pietre antiche e umanità scenografica per farne eventi e finzione? Quindi un luogo funzionale agli investimenti di pochi danarosi contro l’idea del bene comune…

L’idea culturale che si sta affermando in Italia, nella sua violenza simbolica e in un clima di rassegnazione mediatica e civile, è quella della location. Con tutte le conseguenze che vediamo: decoro e sicurezza, zero umanità, ambiente, identità e natura utili solo se servono ad abbellire strategicamente qualche investimento di cemento e specchi.

Ci sono luoghi però che per cultura e tradizione hanno gli strumenti per non cadere nella trappola del tempo, nell’amnesia collettiva. Territori che possiedono uno spirito comunitario generoso, che si è difeso per centinaia di anni dalle devastazioni di ogni tipo di sciocchezza modernizzatrice, dalle autostrade insensate, dal cemento dilagante, dall’abbrutimento dei rapporti umani, non possono diventare con un clic insensato una miniera da sfruttare fino all’ultima pepita. La grandezza dei millenni, narrata dalla storia dell’arte e dal passato prossimo di lotte e resistenza, di coraggio, marce della fame, di solidarietà non andrà buttato in pasto della cultura della location, del luogo cartonato, di finzione storica, di inventata vita antica per fiction americane, di finto folklore ad uso dei turisti.  Sostanzialmente a vantaggio degli investitori privati che vorrebbero che il bene comune fosse il loro giardinetto degli effetti speciali.

Questo non vuol dire che i privati non debbano investire sulle loro attività, sulle idee, sul commercio: vuol dire che il senso della città, del paese, di un luogo – come la Val d’Orcia per esempio -, non può essere determinato dall’idea di sviluppo di un singolo più ricco della media. Per questo serve la politica, oggi più che mai… I luoghi dell’abitare di tutti non possono essere luoghi delle scelte di pochi, non devono diventare luoghi di trasformazione della purezza in falsificazione scenica utile a supportare l’investimento.

La politica, in questo senso, ha svolto e deve continuare a svolgere un ruolo fondamentale. In una società in cui è in atto una corsa sfrenata e miope alla monetizzazione di tutto, la politica deve svolgere il ruolo di contrappeso. Contrappeso pubblico verso la tendenza di pochi – con convincenti accorgimenti – a prendersi tutto, con un accanimento depredatorio. La monetizzazione, l’idea che ogni valore abbia un prezzo, ha una forza mediatica e culturale altissima: tutto è in vendita, sembra essere il messaggio subliminale, anche il paesaggio, la bellezza, la storia, il coraggio, i corpi, l’aria pulita, l’acqua, i saperi.  Anzi proprio i corpi e i saperi  sembrano aver valore solo se monetizzabili. Diventano valore solo se funzionali allo sfruttamento massiccio dei beni comuni.

Quindi, passo dopo passo, mettendo insieme idee e coraggio, un territorio può sottrarsi alla resa incondizionata solo agendo nel conflitto, soltanto riappropriandosi di senso critico, non delegando sempre e in modo conformista a qualcun altro la difesa dei propri diritti umani prima ancora che civili. Se un ponte medievale è stato privatizzato e sottratto alla comunità, una strada vicinale storicamente di tutti chiusa con un cancello, il cittadino non deve adeguarsi, non deve cedere all’amnesia da paesaggio, all’accettazione delle decisioni politiche prese su ordine del ricco privato: deve battersi per difendere il diritto collettivo e con quello il proprio.

La consapevolezza è rivoluzionaria, l’indifferenza spalanca le strade alla dittatura della distruzione di risorse, bellezza, natura, borghi e vita comunitaria.

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