Per sconfiggere un potere devi comprenderne la logica

Per dare seguito all’Elogio della mitezza e del conflitto, e a Dolci con i deboli, duri con i potenti (contro i nodi dell’obbedienza), dopo averci pensato un po’, ho preso in mano un volume che sto leggendo da mesi per evitare la noia: 450 pagine di ricerca, di uno studio ventennale sull’Internazionale situazionista, scritte da Gianfranco Marelli, un insegnante di filosofia, giornalista e anarchico che vive a Ischia. Un intellettuale raffinato e analitico, che osserva quotidianamente il tempo in cui camminiamo distratti, sapendo da quale incantesimo arrivano i nostri passi;  senza perdere mai di vista l’utopia concreta, per “la continua ricerca di un possibile e necessario equilibrio fra la realtà dell’immaginazione presente e l’immaginazione di una realtà futura”.

Questa frase virgolettata Marelli l’ha dedicata tre anni fa all’incontro tra Isola Utopia e San Mauro Cilento, un paesino che per due settimane ha ospitato una residenza artistico-poetica-filosofica internazionale, sull’onda creativa di Bert Theis che, purtroppo per tutti noi, da un anno è venuto a mancare. Una sera di quell’estate Theis e Marelli, con un gruppo variegato di curiosi, cittadini, spaesati e narratori, ripercorsero il filo rosso delle installazioni presenti nel paese, in una camminata lenta e ricca di suggestioni. Due uomini miti e sorridenti, con le loro idee di conflitto, percorrendo pietre e scenari, nello “spazio liberato dalla creatività per vivere momenti di intensa emozione grazie ad un futuro già presente”…  Per finire in una conversazione dentro le mura antiche di un frantoio, contro i nodi dell’obbedienza, per l’appunto. Tra tante facce attonite, domande e bellezza, giovani virgulti del pensiero artistico e alcuni sguardi perduti. Tra questi il sindaco di San Mauro Cilento che avrebbe preferito essere ovunque ma non lì a sentir parlare di situazionismo e di utopia. Di fronte all’affermazione: “Far retrocedere dappertutto l’infelicità”, ebbe un soprassalto d’orgoglio e come un sol uomo si alzò e usci dalla sala, facendo retrocedere congiunturalmente la sua di infelicità. Un modo di impossessarsi di una cultura per negarla.

“…affinché la rivoluzione dell’arte sperimentata singolarmente si trasformi in un’arte della rivoluzione attraverso un progetto collettivo condiviso…”, altra frase fulminante di Marelli.

Tutta questa premessa per introdurre un libro poderoso ed essenziale. Ci vuole tempo per leggere L’amara vittoria del situazionismo. Sottotitolo: Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957-1972 (per i tipi di Mimesis /Eterotopie). E non basta. Occorre dissolvere il metodo, non pensare mai a una lettura lineare, scorrevole, storica. Ma accidentale, lasciata al guizzo dell’intuizione, sperimentata con la pazienza della scoperta. Saltabeccando e disinnescando modi di pensare, come azione di profilassi e sovversione. Tornando indietro nel tempo, riprendendo la strada per poterla di nuovo perdere. Ritornarci su.

“L’anarchia è una profilassi contro il virus del servilismo insito in ognuno di noi”.

Già, direi che Marelli tiene sveglio il senso critico. Il libro è una riedizione, molto aggiornata del testo apparso nel 1996. E si apre con un’immagine dolorosa nella premessa. L’autore racconta se stesso che nel 1994 gironzola per Parigi e cerca di capire come poter incontrare Guy Debord per potergli chiedere aiuto su quello che non era chiaro nella ricerca sul situazionismo. Ma come fare? “Entrai nella brasserie Zimmer di Chatelet con l’obiettivo di trovare il modo giusto; ordinai una birra e incominciai a scrivere la lettera”.  Cinque giorni dopo averla imbucata, mentre Marelli era a cena dai compagni anarchici della rivista Itinéraire, una telefonata: “Hai sentito la radio stasera?… Pare che questo mercoledì Guy si sia suicidato. Improvvisamente il tempo, a Parigi, era cambiato. Faceva freddo e da allora non smise più”.

Non essendo un ragionamento critico su quanto del Situazionismo sia stato in grado di influire su metodi, comportamenti artistici e provocazioni nel corso dei decenni, e non essendo neanche una recensione di un libro – non sarei in grado – lascio ai tanti curiosi e appassionati la lettura di questo testo fondamentale per capire un pezzo della nostra storia, sessanta anni dopo l’incontro del 28 luglio 1957 a Cosio d’Arroscia, per affrontare e vedere con più consapevolezza quello che abbiamo davanti agli occhi. O semplicemente con meno buon senso, sapendo ascoltare le voci nascoste tra le pieghe del tempo.

Inciso misterioso. A proposito, leggendo il libro ho trovato tra le pagine, a pagina 323, un fiore giallo seccato dal tempo. Mi sono ricordato che un giorno d’estate, camminando per i boschi e i sentieri della Valdorcia, lo avevo trovato reciso per terra. Raccogliendolo e mettendolo nel libro avevo costruito una mia personale barricata. Dico questo perché nelle pagine 322-323 Marelli cita un resoconto della notte delle barricate a Parigi, per l’appunto. “Verso le 21 i manifestanti cominciarono a erigere spontaneamente barricate. Ognuno vi riconobbe all’istante la realtà dei propri desideri. Mai la passione della distruzione si era mostrata più creatrice. Tutti corsero alle barricate. Il leader non avevano più la parola. Dovettero accettare il fatto compiuto, tentando stupidamente di minimizzarlo…”

Il compendio di Marelli. Andando a terminare il suo viaggio nell’Internationale Situationniste, l’autore sintetizza alcuni concetti che servono come chiave di lettura del Situazionismo e di quello che è accaduto in questi anni. La mancanza di condizioni rivoluzionarie “aveva consentito il dominio capitalista di recuperare da assimilare le istanze innovative di questo movimento…  Fu infatti la mancata trasformazione del mondo a decretare paradossalmente la vittoria del situazionismo grazie alla banalizzazione delle sue scoperte sovversive e alla loro diffusione da parte della stessa società dello spettacolo così tanto vituperata e osteggiata. Certo: non prima che questa avesse opportunamente sterilizzato, parcellizzato in massima parte travisato tutti i contenuti rivoluzionari che l’internazionale situazionista aveva cercato di realizzare…”
L’autore si sofferma a riflettere sul fatto che le idee sulle cause dell’insoddisfazione umana e sulle possibilità di porvi rimedio, “furono sapientemente utilizzate per migliorare e perfezionare i meccanismi di consenso e di complicità degli individui alla rappresentazione edulcorata della società; idee necessarie in particolar modo a chi – consapevole della propria vita succube e alienata – esigeva forti dosi di ideologia della critica radicale al fine di poter continuare a sopravvivere, nella convenzione del suo più assoluto e concreto antagonismo al dominio spettacolare. Poteva forse essere altrimenti? Ma, soprattutto, come fu possibile che una teoria critica così attenta a non essere recuperata e utilizzata dal potere sia stata prontamente riassorbita da questo senza che ciò causasse quello stato di malessere e di infezione che ogni organismo avverte quando si insinua in esso un corpo estraneo?”

La logica del potere è controllare solo le conseguenze e non le cause. Fronteggiare la crisi, gestirne le conseguenze. Seppellire in un luogo sicuro le cause.

Epilogo. Alcuni passaggi scritti da Marelli, che trovo fulminanti, raccontano il nostro contemporaneo meglio di ogni altra cosa. Ci scrivo intorno da qualche anno. Mi interrogo sempre sui santini laici della sinistra, sui fenomeni mediatici che orientano il pensiero cosiddetto democratico nella gestione utile delle conseguenze. Resto perplesso di fronte alla trasgressione di massa che riconduce a ordine e disciplina, così come nel corso degli studi per fare inchiesta giornalistica mi sono apparsi sempre sospetti quegli atti di destabilizzazione stabilizzante del sistema. La nostra storia recente affonda le sue radici su questi equivoci. La politica e la cultura seguono a ruota.

D’altra parte osservando anche solamente gli effetti con occhio disincantato si possono cogliere dei passaggi epocali:  in questi ultimi decenni la filosofia di vita edonistica, permissiva e trasgressiva ha meglio interpretato lo spirito nuovo del capitalismo.  Scrive Marelli: “Riprendendo la tesi di Boltanskj e Chiappello sul legame tra la critica sociale e la critica artistica come aspetto fondante il processo di rinnovamento compiuto dal capitalismo, il rinato interesse per il situazionismo ha evidenziato quanto i valori di autonomia individuale, creatività, nomadismo, gioco, siano stati riutilizzati all’interno del processo economico e abbiano determinato la svolta dell’apparato produttivo capitalista, trasformando il ruolo del lavoratore cognitivo nella figura dell’artista, sempre più soggetto ad un’autonomia precaria, costretto a mettersi in gioco e a costruirsi un mestiere/situazione al punto da ricominciare la propria esperienza lavorativa ovunque e a qualsiasi condizione, in una società divenuta oppressiva per il produttore e permissiva per il consumatore”.

Anche in questo si può leggere la vittoria – amara – del situazionismo all’insaputa di molti situazionisti. “Non certo però di coloro che approfittarono del loro trascorso nell’I.S. – foss’anche una semplice comparsa al suo interno, o una più probabile adesione esterna – per compiere folgoranti carriere come amministratori delegati di società multinazionali, direttori di palinsesti multimediali, se non addirittura consiglieri di ministeri per la qualità della vita di governi indistintamente di sinistra e di destra. Del resto ad essere folgorati dal nuovo spirito del capitalismo – come ben ci ha rammentato José Saramago – furono molti dei più accesi leader dei gruppuscoli extraparlamentari che «essendo stati a diciott’anni, non solo le ridenti primavere dello stile, ma anche, e forse soprattutto, esuberanti rivoluzionari decisi a rovesciare il sistema dei padri e metterci al suo posto il paradiso, beh, della fraternità, si ritrovano ora, con una fermezza per lo meno uguale, impoltroniti in convinzioni e prassi che, dopo esser passate, per riscaldare e render più flessibili i muscoli, per una delle tante versioni del conservatorismo moderato, hanno finito per sfociare nel più sfrenato e reazionario egoismo. In parole non tanto cerimoniose – chiosa sprezzante il poeta lusitano –, questi uomini e queste donne, davanti allo specchio della propria vita, sputano tutti i giorni sulla faccia di quel che sono stati lo scaracchio di quel che sono»”.

Le istanze rivoluzionarie apparentemente più potenti sono state nel tempo messe a reddito nella trasformazione produttiva imposta dalla globalizzazione. La critica più forte, l’azione sovversiva più azzeccata sono state sciolte come aspirina in un bicchier d’acqua “alla moda dei nuovi saltimbanchi della cultura e dell’arte, pronti a rivendicare la propria critica dello spettacolo mediatico, divenendo lo spettacolo critico mediatico più à la page”.

Siamo sempre all’interno dei nodi dell’obbedienza.  Quei nodi che il lavoro di Marelli affronta con attenzione, critica e cura. Si percepisce una disillusione. Siamo di fronte a un muro di gomma? Che cosa fare per salvare l’idea di sovversione senza partecipare all’azione di trasformazione e modernizzazione del sistema? Quanti santoni, curatori, artisti sono così bravi ed efficaci da riuscire sempre e comunque ad assorbire tensioni rivoluzionarie, a mettere in questione proficuamente spinte furibonde artistiche per regolarne il valore sul mercato, per fare di qualunque azione un gradino per il proprio vantaggio? Perché quando si parla di sistema e di capitalismo non si parla soltanto di sfruttamento e di ferocia sociale, ma anche di adesione colta, di finte bandiere sovversive piegate miracolosamente alla gestione delle conseguenze, alla creatività utile per il capitalismo.

La navigazione non è certo conclusa, spiega nelle ultime righe Marelli. Come dargli torto. È impossibile sconfiggere un potere se non se ne comprende la logica.

 

 

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