Se un comasco si mettesse a parlare in dialetto con un bergamasco di sicuro non si capirebbero e dovrebbero ricorrere alla lingua italiana, dal momento che non esistono né una lingua lombarda né una lingua padana. Non esiste nemmeno una lingua veneta, per permettere la comunicazione fra vicentini e veneziani. Esiste invece una lingua catalana che cementa il processo identitario e «patriottico » della Catalogna indipendista.
Ma in forza di queste differenze si può sostenere che lombardi e veneti abbiano più o meno diritti dei catalani?
La risposta è impossibile, poiché è del tutto evidente che se si prendono a pretesto per una battaglia indipendentista la storia e la lingua dei popoli e si beatificano tradizioni, dialetti, usanze riassunte nella cosiddetta «cultura popolare», il processo identitario non può che portare alle estreme conseguenze.
Il problema è appunto «come» si pone il problema, tenendo ben presenti diritti e differenze che per forza di cose confliggono con lo Stato centrale e con interessi e diritti di minoranze interne.
E poi, di quali diritti si parla? L’identità o le tasse? Le banche locali o le industrie nazionali? Il sistema sanitario o la gestione del turismo?
Le grandi manifestazioni unioniste a Barcellona dovrebbero significare qualche cosa, come del resto la scarsa affluenza alle urne dei milanesi.
Se si guarda la storia del mondo, a qualsiasi latitudine, e purtroppo le tragedie recenti, dalla Bosnia al Kosovo, la questione dei diritti dei popoli in conflitto con la sovranità degli Stati è sempre stata la principale causa di guerre e tragedie. Ma è anche vero che in alcuni casi, la soluzione è stata trovata in modo indolore, nell’interesse di tutti.
Pensiamo alla riunificazione tedesca, al referendum che ha separato cechi e slovacchi, al referendum in Crimea, benché considerato un atto unilaterale di Putin, il quale ha abilmente tenuto insieme l’interesse della Russia e il diritto dei russi di Crimea, nobilitato dal precedente del Kosovo.
Si può anche sostenere, come nel caso della riunificazione tedesca o del Kosovo, che il diritto dei popoli coincideva anche con il diritto a liberarsi da una dittatura.
Il che non è ovviamente il caso della Lombardia o della Catalogna.
Ma anche questo scenario ha le sue eccezioni. Timor Est conquistò l’indipendenza dall’Indonesia, con la benedizione della Comunità internazionale, che trascurò il fatto che l’isola era un’ex colonia portoghese, logicamente appartenente alla dimensione statuale dell’Indonesia, peraltro avviata a un processo di democratizzazione.
La soluzione più ragionevole, come suggeriscono le vicende spagnole, sarebbe la netta distinzione fra principio di autonomia (che è la praticabile via al federalismo, secondo il modello tedesco), e principio d’indipendenza. Ma la netta distinzione diventa impossibile nel momento in cui il localismo tira la corda dell’indipendenza fiscale o pretende di considerare la tradizione a livello di bandiera nazionale e nel momento in cui lo Stato nega diritti di autonomia e autogoverno scambiandoli per secessione.
Alla fine, occorrerebbe usare il buon senso e chiamare le cose con il loro nome.
Esercizio difficile, quando la storia fa a pugni con l’interesse del più forte o quando una minoranza forte alza la voce contro uno Stato debole o indebolito da forze centrifughe di varia natura, come nel caso della Gran Bretagna alle prese con le aspettative di scozzesi e irlandesi.
Come purtroppo sarà il caso del grande «Stato» europeo, inviso a minoranze, partiti e movimenti sempre più insofferenti.
In Bosnia i diritti sacrosanti furono agitati come scimitarre. Si sa come è finita.