
Abbiamo a cuore la cultura, amiamo l’arte. Ogni sguardo puro che ci arricchisce nell’incontro, che mostra la via per la bellezza, o apre dubbi, domande e azione. Che abbia una visione del mondo, innovativa ma non sia avulsa dal territorio. Poiché un territorio è sempre un tessuto di persone. E quelle persone siamo noi, qui e ora. Siamo noi con le nostre invenzioni, con le nostre idee, con la voglia di stupire ed essere stupiti. Siamo noi, con la volontà di non essere considerati una colonia, un luogo dove relegare idee altrui con una spolveratina di fama sopra a renderle innocue. Non fertili.
La cultura è potente, nei luoghi dell’abitare, solo se è fertile. Se ha il senso del coltivare, se ha la costanza, la pazienza e la cura del coltivare. Per questo amiamo il tempo lento dell’agire in uno spazio di paesaggio e lavoro che conosce il valore delle stagioni, della fatica e della meraviglia. Per questo non amiamo i format, l’usa e getta che tanto va di moda, i fenomeni mediatici che piombano nei nostri teatri come marziani e non lasciano niente. Somigliano all’asfalto o al cemento sul suono coltivabile. Non solo lo impermeabilizzano, lo rendono infruttuoso.
La perdita di un centro mi permette di riposizionarmi nel mondo. Tanti anni fa, con un gruppo di artisti e curatori a Milano, ragionammo su un progetto che aveva questo titolo. Partiva dalla considerazione che laddove il centro produce effetti dilanianti, feroci o banali che successivamente vengono declinati verso la periferia, è compito delle zone di confine più lontane dal centro esercitare il diritto-dovere di sovvertire lo schema. Di attivare contromisure, camminando-domandando, percorrendo possibilità artistiche, culturali, sociali di purezza estrema.
Spiazzando la realtà per poterla meglio interpretare.
La periferia come luogo del possibile. Dove accantonare l’obbedienza e riappropriarsi del conflitto, di un dinamismo culturale, dove ravvicinare la domanda, l’ascolto, la bellezza, per fare percorsi aperti che non hanno lo scopo di calcolare a priori il traguardo, ma solo per fare un cammino insieme. Poiché un territorio è sempre un tessuto di persone.
Una tappa, fondamentale, vedeva un attraversamento poetico di una Milano dal centro alla periferia, lungo il Naviglio fino alla stazione ecomostro di San Cristoforo, abbandonata prima di essere inaugurata, ai confini con Corsico. Quel giorno c’erano tante belle persone a camminare. E c’era Matteo Guarnaccia. Artista e storico del costume, aveva preparato le sue tappe narrative. Ma i partecipanti, alcuni decisamente interessanti, non volevano ascoltare semplicemente una lezione itinerante. Né volevano rispettare un percorso prefissato. Fu una deriva di scoperte, di possibilità raccolte collettivamente, di paure esorcizzate e divisione del pane e del vino. Matteo, che aveva appunti deliziosi e tante cose da dire, continuò col suo percorso fino ad esaurimento, fino a conversare con chi capitava, senza più soste e spiegazioni.
Il mondo di quella mattinata esplose in mille rivoli di interesse. Senza di lui sarebbe stata la stessa cosa. Anzi, per quello che mi riguarda, avrei preferito il silenzio e la poesia dell’uscita di scena, dal cuore pulsante milanese verso luoghi misteriosi e talmente perversi da essere struggenti.
Ci ho messo anni per capire quella sensazione. La perdita del centro mi stava permettendo un riposizionamento culturale e umano, ma non sulle linee guida prevedibili. Non me ne voglia il gentile Guarnaccia, ma per me quel passaggio ha rappresentato una rottura storica. Ho percepito con chiarezza quanto fosse necessario riformulare le basi dell’incontro tra umani di diverse generazioni e provenienze. Liberandole dall’impaccio del dover sempre e per ogni circostanza ripetere gli schemi del passato. Svuotati dall’essenza ideologica, sottratti alla magia, per questo più oleati e funzionali. Non mi infastidivano solo i giardinetti finti per bambini messi sotto condomini recintati e costosi ai margini dei Navigli. Ho percepito l’insieme come un giardinetto ben disegnato che niente metteva in gioco. Vuote avanguardie il loop di concetti. Siamo sempre all’interno dei nodi dell’obbedienza.
“L’artista guarda ciò che gli sta davanti e lo restituisce con il suo sguardo in modo che la suggestione incontri la voce delle necessità o dei desideri di chi lo abita e lo caratterizza. Quando si perde il proprio centro, l’orientamento di ciò che ci circonda si sconvolge. Si ripensano tutti i punti cardinali della nostra esistenza: ciò che è marginale diventa fondamentale, si moltiplicano i centri e la percezione da stereotipata diventa critica. L’esperienza artistica diventa così lo strumento che si interroga su come si può ragionare una trasformazione orizzontale di un contesto apparentemente precario che, in realtà, nasconde semplicemente le sue potenzialità. Ogni territorio, attraverso il suo vissuto, accumula un’energia che lo sguardo dell’arte può cogliere e tradurre in un sistema comunitario complesso”.
Questo c’era scritto nel progetto. Per questo non servivano lezioni, appunti, tappe e altre circostanze che rendevano il dialogo retorico. Uno che sa, contro tutti che non sanno. Serviva altro. Occorreva gettare alle spalle gli anni Sessanta, i Settanta, gli Ottanta e tutto il resto, le rendite di posizione, le paure, l’accanimento accademico e la supponenza. Non gettare via tutto, ma operare sul terreno per rendere la teoria azione. Come diceva Simone Weil: fare del pensiero un’azione. Possibilmente collettiva, non finalizzata al successo, alla dimostrazione o al consenso. Pura e semplice. Con i maestri che fanno i maestri, e quando lo sono quasi non te ne accorgi. Con la capacità di cogliere la bellezza, lontano dalle retoriche delle metropoli, dalla deriva citazionista, dal mostrare sapere e potere sempre e comunque. In un’aula di tribunale o di università o in un centro sociale.
Non importa il luogo o il vestito, importa il metodo. Ecco, dopo quell’esperienza ho riflettuto che cosa volesse dire “Contro il metodo” abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, per citare Feyerabend). Un abbozzo. Non una spiegazione o una fotografia.
Sono qui in Valdorcia anche per questo. Ho scelto di riposizionare il mio centro ed è la periferia del mondo metropolitano, dove le radici della storia hanno costruito bellezza, dove il lavoro duro ha sollevato montagne, scolpito misteri, elevato allo spirito i cuori. Quindi la periferia dell’impero, la campagna che ha costruito la sua storia di rispetto e umanità, di resistenza e lotta. Un luogo temporaneamente lontano dall’indifferenza urticante borghese, intellettuale, scicchettosa e conformista cittadina, dalla ferocia e dal disinteresse per il luogo che calpestiamo.
Temporaneamente. Ma in questo temporaneamente c’è il senso del limes, del confine tra modi di pensare: da una parte una magnifica terra con la sua identità popolare, con i paesaggi solcati dal lavoro e dal rispetto, terra austera e sacra, di insegnamento, non ancora venduta alle retoriche mediatiche dell’epoca. Dall’altra la furia della modernità a ogni costo, gioiosa, festaiola, distruttiva che porta solo cemento e arricchimento per pochi, turismo di massa e che una volta che passa lascia il deserto.
Ecco, zona di confine e di resistenza culturale. Ma anche di innovazioni di buone abitudini, di una visione del tempo e del rispetto diametralmente opposta a quella delle metropoli dissanguate da solitudini rumorose, da vuoti e violenti rituali di compagnia dove il bere e l’incedere con la birretta ciondolante è l’unica forma di socialità costretta e notturna. Mettersi all’opera sul confine vuol dire testimoniare le differenze. Non far passare senza discutere, senza conflitto, questa visione pessimistica e distruttrice, e nel contempo agire per cambiare il mondo per evitare che il mondo della bruttezza cambi noi.
Quindi sì, ben venga anche il conflitto. Il rovesciamento della realtà conformista: dolci con i deboli, duri con i potenti. Se non è un rovesciamento questo. E ancora conversare in circolo, senza palchi e palchetti, ascoltare, domandare, replicare. Ogni cosa nel tempo giusto, avendo cura per il parere dell’altro. Seduti su sedie scompagnate, in un luogo aperto o chiuso, ma sempre pronti a prendere il cammino per un percorso dell’anima. Seguendo le tracce della bellezza e della sapienza. In questi mesi ho incontrato maestri impensabili. La condizione è che non vengano impacchettati e sacrificati col fiocchetto per gli investitori o i mercanti di delizie tossiche.
Di quel progetto milanese porto nel cuore Isabella, poetessa straordinaria e sensibile. E i giovani artisti e curatori che in un giorno qualunque camminarono con me lungo i sentieri urbani del Giambellino, tra giardinetti improvvisati e visioni magiche, sedendo in piccoli bar antichi. Oppure attraversando il mercato comunale: ricordo che pensammo quasi sorridendo che il centro di quel mercato potesse ospitare la nostra redazione, il nostro giornale fatto col ciclostile (ho sempre ipotizzato nuove forme di comunicazione e di informazione). Camminando-domandando. In un caleidoscopio di storie, narrazioni, emozioni. Con Camilla, Naima, Pierfabrizio e con Elena, il cui sorriso non c’è più.
Qui e ora, sul limes in Val d’Orcia, sento di doverli ringraziare. Nasce anche da quelle considerazioni sull’impossibilità di dare una forma rivoluzionaria al nostro progetto l’idea di guardare altrove. Di sperimentare altri luoghi, senza alcun ripiegamento né idea di fuga. Solamente percorrendo con coerenza e un pizzico di follia il sentiero che ci porta verso un luogo di purezza e sovversione. Che sia vero. Non chiuso nei cubicoli del tempo, o incasellato in tecnicismi che fingono rivoluzioni dello sguardo e che rappresentano invece l’occupazione culturale.
“Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.”
(San Bernardo di Chiaravalle)