
La grande partita mediorientale, in questa fase, non si gioca in Siria ma nel Golfo Persico. La palla schizza avanti e indietro tra. Teheran e Riad e, ogni tanto, rimbalza da Mosca a Washington. La guerra mondiale dei sunniti contro gli sciiti, scatenata dentro l’Islam dall’intervento occidentale dopo le “Primavere arabe”, continua più aspra che mai. Guerra (per ora) soprattutto diplomatica. Di tutti contro tutti. Così il sovrano saudita, Salman bin Abdulaziz, sulla carta alleato di ferro degli Stati Uniti, si è recato in pellegrinaggio al Cremlino, per chiedere a Putin di arginare le foie espansionistiche degli ayatollah.
Salman ha preso in contropiede Trump, prima che il Presidente Usa tenga il suo discorso sul nucleare iraniano, forse la prossima settimana. Gli informatissimi israeliani hanno già fatto sapere che, in quell’occasione, la Casa Bianca concederà una moratoria di 60-90 giorni a Teheran, per verificare la corretta osservanza delle clausole dell’accordo “atomico”. Ma, intanto, Trump non perde tempo e, alquanto improvvidamente, brucia le tappe spifferando alcune considerazioni “forti”. Il Presidente ha anticipato che secondo lui “l’Iran non ha rispettato lo spirito dell’accordo sul nucleare” e che “non bisogna consentirgli di dotarsi di armi atomiche”.
E poi, ancora più tranchant, ha concluso: “Il regime iraniano appoggia il terrorismo ed esporta violenza, spargimenti di sangue e caos nel Medio Oriente. Questo e’ il motivo per cui dobbiamo mettere fine alle continue aggressioni e alle sue ambizioni nucleari”. Quello che si sa di sicuro, per ora, è che nuove sanzioni sarebbero in arrivo per le Guardie rivoluzionarie degli ayatollah, considerate come “organizzazione estremistica”. Il Segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, ha detto che i messaggi che saranno spediti verso Teheran “non riguarderanno solo il nucleare”, facendo presagire un ulteriore giro di vite nei rapporti con la teocrazia del Golfo.
A dirla chiara, ormai Trump si è rimangiato con tutte le scarpe la precedente politica di apertura di Obama. Il risultato? Ha spalancato sterminate praterie diplomatiche, dove adesso comincia a zompare allegramente Putin, che fino all’anno scorso, in Medio Oriente, doveva entrare dalla porta di servizio. Lo ha capito bene il capo del Pentagono, il Ministro James Mattis, che pur non spasimando per l’Iran, spezza una lancia in suo favore, sostenendo “che ha rispettato sostanzialmente l’intesa” e aggiungendo che essa “è nell’interesse degli Usa” e che quindi il Presidente “dovrebbe considerare di mantenerla”.
La stessa cosa pensano non solo Russia e Cina, ma anche gli altri alleati europei, a cominciare dalla Germania. Tutti Paesi in cui si ritiene che la crescente ostilità israeliana verso Teheran possa avere influenzato pesantemente Trump e i suoi adviser, Tornando all’Arabia Saudita, alcuni analisti ritengono che a Riad gli sceicchi non siano tanto preoccupati dall’Iran atomico, quanto piuttosto dall’incapacità americana di gestire le crisi siriana e curdo-irakena. Tutte aree in cui le milizie sciite avanzano come un rullo compressore.
Da qui la decisione di chiedere udienza a Putin e di sondare il terreno, per vedere se è possibile giocare con due mazzi di carte, coinvolgendo anche Mosca nel “risiko”. Un’esigenza divenuta pressante, dopo che anche la Turchia ha, di fatto, aderito all’entente cordiale tra Russia, Iran ed Hezbollah per quanto riguarda la gestione della crisi siriana. I sauditi certamente non digerivano Obama, ora però si fidano ancora meno di Donald Trump, giudicato, dietro le quinte, un pasticcione senza né arte e né parte.
Incapace persino di coordinare la sua Amministrazione, dove, agli Esteri, Rex Tillerson dice una cosa e, alla Difesa, James Mattis gli risponde parlando una lingua diversa. Tra le altre cose, a Riad sono in allarme per la piega presa dalla guerra civile yemenita. Un conflitto pericolosissimo, nato e cresciuto appresso porta. Per cui, adesso, il coro intonato da tutta la famiglia reale saudita è: “Vladimir Vladimirovic Putin, pensaci tu”.