
Dopo la miseria. Non mi sorprende mai la visione del mondo di chi è reazionario di destra: da una parte la ricchezza, dall’altra la miseria. In mezzo ogni strumento valido perché la più remota ipotesi di giustizia sociale venga vanificata. Con il manganello. Con le leggi. Con la repressione. Con le armi. Con la guerra. Con i media. Con quelli fascistoidi, con quelli democratici ma all’acqua di rose.
Non mi sorprende che Libero faccia Libero. O che il Tempo si metta in mostra per il suo ghigno feroce. Sono gli strumenti esatti di un pensiero scolpito nella pietra del pregiudizio e dell’ignoranza, del vantaggio privato contro il bene comune.
La destra è destra perché ritiene l’ingiustizia sociale la base filosofica sulla quale basare il diritto del più forte sul più debole. E declinando il concetto: dell’uomo sulla donna, del bianco sul nero, dell’inquinatore sugli straccioni che ne subiranno gli effetti, del costruttore seriale sul cittadino indifeso, del cementificatore sulla natura.
La destra è destra perché se usa l’olio di ricino lo fa per il decoro e per il padrone. Se bastona in piazza lo fa per la disciplina. Se reprime lo fa per l’ordine. Altrimenti non sarebbero quello che sono. Facce brutte e brutali in difesa di un sistema di valori in cui la miseria di molti è necessaria per il bene di pochi e per la stupidità interpretativa di tanti.
Non è la destra reazionaria che mi sgomenta. È tutto il resto. La destra ringhi pure, tutti noi umani, però, possiamo continuare a ragionare. Anche spegnendo la televisione, liberandoci delle chat insulse su Facebook, riappropriandoci di idee e di una pratica sul territorio che sembra essere scomparsa nel pippario dei distinguo. Nell’inseguire una politica del consenso che ci conduce direttamente nelle braccia di quei mostri che combattiamo, di quella destra fascista, razzista, xenofoba, ottusa e chiarissima nei suoi intenti. In difesa dell’ingiustizia in ogni sua declinazione.
La guerra del tempo è la guerra di sempre. Il nemico di oggi è il nemico storico: il povero. Ma non perché venga superata la povertà con politiche vagamente etiche, o diminuendo lo sfruttamento, o smettendola di fabbricare bombe e ferocia, schiavitù legalizzate o brutali. Perché venga invece repressa e messa alla berlina come mancanza umana. Con accanimento. Con l’accanimento di chi ha in mano il bastone e picchia sulla testa di chi cerca di restare a galla per non morire.
La miseria è un problema che non ci riguarda? Riguarda i poveri, i disgraziati, i figli di quelli che bombardiamo inneggiando alla democrazia? Riguarda i senza lavoro, i senza casa, i senza diritti? Che miseria morale e culturale… Quello sì.
L’idea nefasta dell’epoca è che ogni azione culturale, artistica, poetica, sociale, debba essere finalizzata alla costruzione del consenso. Non vi fa venire i brividi questa corsa al conformismo che impegna attivamente politici, intellettuali e anche giornalisti?
Per esempio, a proposito di razzismo mediatico col ghigno nazi e di quello in doppiopetto infiocchettato dalla banalità del mestiere, il Caffè di Massimo Gramellini sul Corsera. Non leggevo i temini del nostro dai tempi della Stampa (e delle epiche prese in giro di “Buongiorno un cazzo”). Ieri ho inciampato su questa perla. Parlando, con la saccenza che gli appartiene, di una sorta di legge del contrappasso che risolverebbe i problemi della società, tra le altre cose scrive: “E il teorico dell’accoglienza senza limiti e confini con residenza nel centro storico? Costretto a fraternizzare in una strada buia di periferia con una comitiva di giovani migranti abbandonati a loro stessi”.
Da una parte il ricco, dall’altra il povero. Da una parte il creativo (intellettuale, agiato, figlio di papà ecc. ecc. ) che vive sereno a casa sua e non crea problemi a nessuno. Dall’altra la comitiva di giovani migranti nella strada buia, quindi portatori evidenti di pericolo per il resto buono (e bianco) dell’umanità. Strano che non abbia sottolineato: negri nella notte oscura…
Poi in chiusura, per addolcire il razzismo aggiunge: “…abbandonati a se stessi”. Eh no, non basta, caro caffeinomane, non basta ad addolcire il razzismo evidente con uno stucco colorato. Il ricco è bianco e buono, il migrante nero vaga nel buio in gruppo e mette paura. Perché se il razzismo fascistoide dei giornali di destra ha un peso specifico, peggiore è il qualunquismo democratico, l’ironia di chi sta istruendo bonariamente al lettore sul razzismo accettabile.
Dopo aver letto, la risposta del lettore quale dovrebbe essere? Prendere a scappellotti il teorico dell’accoglienza senza limiti, virando comunque sulla ricetta securitaria.
Più muri per tutti, quindi. Con ironia ed eleganza.
La corsa sui binari del pensiero unico, come è evidente, contiene al proprio interno anche la sua opposizione necessaria e i suoi celebrati interpreti. (Ma la direzione è obbligata…)
La rivoluzione, la nostra rivoluzione, non deve creare consenso ma dubbi. Non certezze assolute (securitarie, ottuse, da reportage dei media nelle periferie sconosciute della vita) ma senso critico. Un modo di esercitare pensiero, in libertà, creativo, ma pensiero proprio.
Ecco, arte e poesia sarebbero necessari. Perché esprimono come principio attivo una visione che scardini il conformismo dell’interpretazione. Ma se gli artisti (i giornalisti, gli scrittori) operano nel consenso tutto è inutile, diventano la stampella del sistema, collaborazionisti della bruttezza etica ed estetica, cantori eleganti dell’abbellimento strategico che serve a camuffare l’orrore: se il mondo è buio, si perderà la bellezza e governerà la paura.
Penso che ogni ragionamento non allineato, dissonante, critico e artistico possa – se non altro – far ritardare lo sviluppo del consenso. Mentre l’inganno è necessario per farlo avanzare.