C’è da sperare che i fantasmi restino chiusi negli armadi sanguinanti della memoria e che alla fine un compromesso ispirato da buon senso prevalga sulle impulsive impazienze dei catalani e sulla scomposta repressione del governo centrale. Purtroppo, la storia recente e passata ci racconta – senza avere insegnato nulla – che mettere insieme diritti all’autodeterminazione dei popoli e diritto all’integrità degli Stati significa quasi sempre scherzare con il fuoco, al di là delle intenzioni pacifiche o bellicose dei protagonisti e della diversità delle singole situazioni.
Quando la Germania celebrò la riunificazione dopo la caduta del Muro di Berlino lo fece invocando il diritto all’autodeterminazione, facilmente celebrabile nei Laender orientali che uscivano dalla dittatura comunista. E fu proprio la Germania (con l’allora ministro degli esteri Hans Dietrich Genscher) a incoraggiare in nome dello stesso principio le aspirazioni all’indipendenza di Croazia, Bosnia e Slovenia, con un occhio non proprio disinteressato alle possibilità di allargare sfera d’influenza e area commerciale del marco.
Si sa come è finita: duecentomila morti, milioni di profughi, un assetto istituzionale incerto e complicato in Bosnia, forze militari internazionali ancora sul terreno per impedire nuove tragedie e – conclusione inevitabile – la guerra per l’indipendenza del Kosovo, sostenuta dagli Stati Uniti e appoggiata dai bombardieri della Nato che devastarono la Serbia di Milosevic.
Il peso specifico degli Usa e il riconoscimento internazionale dell’indipendenza kosovara hanno naturalmente creato un precedente politico poi utilizzato in altre situazioni, da Timor Est alla Crimea, ma chiuso a doppia mandata ad esempio in Tibet.
In pratica, più che un principio etico cui dovrebbero ispirarsi i rapporti fra Stati e popoli, l’autodeterminazione funziona a geometria variabile, condizionata com’è dagli interessi in gioco, dal potere negoziale delle minoranze interessate e dal potere d’interdizione degli Stati più forti.
Il ricordo della guerra civile e le più recenti ferite del separatismo basco non potevano ispirare in modo diverso il governo centrale di Madrid. Giustamente, la Spagna può far valere le diverse condizioni sociali, economiche e istituzionali che regolano i rapporti fra le diverse comunità del Paese.
La Spagna non è la Serbia di Milosevic né l’Indonesia di Suharto, né sono paragonabili le garanzie di autonomia dei catalani con la pesante repressione lungamente subita dai kosovari e da altre minoranze nel mondo. Resta il fatto che pochi immaginavano le tragedie successive quando a Zagabria e a Sarajevo cominciarono a balenare con scimitarre le bandiere del nazionalismo e del localismo.
Ci sarebbe poi da constatare che l’autodeterminazione (che spesso fa rima con separatismo) quand’anche raggiunga lo scopo in modo pacifico, non è mai indolore.
E’ la lezione della Brexit: si spera la più salutare per quanti pensano di sfasciare Stati nazionali e Unione europea nell’epoca della competitività globale e delle Superpotenze che si contendono il dominio del pianeta.