
Intorno agli anni Trenta dell’Ottocento il generale tedesco Clausewitz, dopo robuste letture di storia e filosofia, scrisse che la guerra era la continuazione della politica con altri mezzi. Circa tre decenni dopo il generale americano Grant, dopo aver combattuto la guerra civile, scrisse più realisticamente che la guerra era ‘l’inferno’. Entrambi, da diversi punti di vista, avevano ragione, ma il giudizio del tedesco ebbe più fortuna, mentre quello dell’americano fu in pratica dimenticato.
Rimozione non caso. Tutta la storia delle guerra civile americana -‘guerra di secessione’ per il sud- fu da subito manipolata per diversi motivi, primo dei quali la difficile pacificazione tra Nord e Sud. La posta in gioco insomma era alta e si trattò di qualcosa di più di un semplice rimescolamento di carte, della guerra narrata come sempre dal vincitore.
La guerra civile è stato il più sanguinoso conflitto in tutta la storia americana. Un numero elevatissimo di perdite da ambo le parti, e non solo tra i militari, ma anche tra la popolazione che inizialmente era stata risparmiata o comunque lasciata al margine delle operazioni belliche. Durante la campagna di Shenandoa nel 1864, ad esempio, il generale Sheridan (soprannominato poi l’Incendiario), praticò la tattica della ‘terra bruciata’: l’obiettivo era impedire alla Confederazione di rifornirsi di viveri e foraggi e la soluzione fu l’incendio sistematico di fattorie, granai e mulini, spesso passando per le armi i civili che si opponevano.
Dall’altra parte nemmeno i confederati erano andati tanto per il sottile con la popolazione civile, soprattutto quando erano stati segnalati casi di soldati nordisti nascosti. Il solco tra le due parti era dunque molto marcato e occorreva una soluzione ampia (oggi si direbbe ‘condivisa’) che a fine guerra facesse dimenticare in parte quegli orrori.
La successiva elaborazione del mito della guerra civile concesse ad ognuna delle due parti un certo spazio autonomo di memorie, ma non risolse mai uno dei temi fondamentali come quello della schiavitù, poi diventata la segregazione razziale, questione che rimase sotto traccia esplodendo un secolo dopo nelle lotte per i diritti civili.
Altro aspetto, che sembra essere riemerso di sfuggita nei fatti di Charlottesville, è l’immagine del Nord industriale e affarista che schiaccia il Sud rurale e patriarcale. Non solo si tratta di una delle immagini popolari più diffuse della guerra civile, ma di quella che ha avuto seguito nell’immediato dopoguerra, 1865, quando, nel Sud indebitato e rovinato, arrivarono gli affaristi e politici yankee a comprare le grandi proprietà per cifre irrisorie. Il ritorno di questa immagine in termini moderni – già apparsa nella campagna elettorale di Donald Trump – sembra però più insidioso, soprattutto quando rischia di diventare aperto e violento razzismo di ritorno.
A tale proposito una figura molto ambigua tra quelle dei generali sudisti è quella di Nathan Bedford Forrest, divenuto generale senza aver mai avuto una formazione militare, ma avendo accumulato prima della guerra una fortuna come mercante di schiavi. Comportatosi con temerarietà in guerra, il suo nome è tuttavia legato ad episodi controversi: truppe al suo comando passarono per le armi numerosi afroamericani catturati con l’uniforme nordista o l’uccisione di prigionieri dopo la resa. Non stupisce che, con questo passato, il generale sia stato uno dei fondatori del Ku Klux Klan, anche se egli negò sempre di esserne una figura di spicco.
Forrest, a giustificazione del suo razzismo, spiegò che i nemici del Sud non erano gli afroamericani -bontà sua-, quanto piuttosto i ‘carpetbaggers’ (alla lettera: portatori di borsa di stoffa), cioè gli affaristi venuti dal Nord dopo la guerra con una borsa da viaggio. E poiché il termine è rimasto nel linguaggio per indicare politici spregiudicati, è comprensibile cosa possa suscitare e quali sentimenti di rivalsa vi si possano appoggiare.
La politica –avrebbe scritto Clausewitz– la continuazione della guerra.