La tragica vicenda di Liu Xiaobo, il dissidente cinese premio Nobel per la pace morto in reclusione il 13 luglio, ha suscitato nei media occidentali reazioni meno forti del previsto. Eppure si tratta di una figura altamente simbolica. Scrittore e attivista del movimento per la difesa dei diritti umani, era noto all’estero ma quasi sconosciuto nel suo Paese. Ricordo infatti che, trovandomi a Pechino nel 2010, quando gli fu assegnato il Nobel, ne parlai con colleghi universitari locali e verificai che solo alcuni avevano una vaga idea di chi fosse, mentre altri non lo conoscevano affatto.
Si dirà che professori e studenti cinesi temono la repressione e per questo non parlano di simili questioni con gli stranieri, ma non sono sicuro che sia proprio così. Mi è infatti capitato molte volte di parlare di altri problemi delicati come, per esempio, la mancanza di libere elezioni e il ruolo del Partito comunista e, in tali frangenti, ricevevo risposte precise e piuttosto franche. Nel caso di Liu, invece, i volti dei miei interlocutori manifestavano una sincera ignoranza.
Perché dunque, come dicevo all’inizio, le reazioni dei media occidentali sono state tutto sommato blande? A me pare che da noi si sia diffusa la consapevolezza che l’insistenza sui “diritti umani”, intesi ovviamente nell’accezione occidentale dell’espressione, abbia finito col creare più danni che vantaggi. E ha pure dato vita a una retorica che è facile percepire come tale, e che ha raggiunto il culmine – partendo dall’America – nell’era di Barack Obama e Hillary Clinton.
Se si trattasse solo di difendere tali diritti ovunque nel mondo probabilmente nessuno farebbe obiezioni. E invece ci sono due problemi di fondo. Il primo consiste nell’imprecisione dei termini usati, poiché non è detto che tutti abbiano in mente la stessa idea di “diritti umani”. Il secondo è dovuto al fatto, ormai acclarato, che dietro tale espressione si cela un disegno meno nobile, vale a dire la volontà di esportare la democrazia liberale in ogni parte del globo, nessuna esclusa.
È insomma il vecchio sogno di Francis Fukuyama rivestito di parole nuove. Con il crollo dell’URSS e la fine del comunismo, la liberaldemocrazia non avrebbe più incontrato ostacoli e sarebbe stata certa di espandersi dai deserti arabi alle steppe mongole, dalle foreste africane all’immensa Cina.
Purtroppo il sogno ha rivelato subito di essere fasullo e abbiamo pagato prezzi altissimi quando si è cercato di realizzarlo. Le “primavere arabe” sono un esempio, la destabilizzazione della Russia è un altro, la diffusione a macchia d’olio del fondamentalismo islamista un altro ancora (e l’elenco è assai più lungo).
Scontata la solidarietà umana per la vicenda tragica di Liu Xiaobo, occorre a questo punto chiedersi se davvero convenga fare di tutto per destabilizzare anche la Cina e, per fortuna, molti governi occidentali sembrano aver capito che non conviene affatto. La RPC ha già i suoi problemi interni e la dirigenza di Pechino tiene a bada le spinte disgregatrici solo usando il pugno di ferro. Ecco perché non può cedere su Hong Kong: se lo facesse inizierebbe una frana che, forse, non potrebbe essere arrestata.
Sullo scomparso Liu, infine, mette conto rammentare che scrisse articoli a sostegno della guerra di Bush in Iraq. E affermò pure che, poiché 100 anni di colonialismo inglese hanno reso Hong Kong un gioiello, alla Cina sono necessari almeno 300 anni di colonialismo per renderla simile alla ex colonia britannica. Il rispetto per la morte, insomma, non deve far dimenticare che, talora, pure i dissidenti dicono cose strampalate.