Trump-Pinocchio. In Gran Bretagna le bugie sulla Brexit

Ma Donald Trump, lo è o lo fa?
Che non fosse una persona equilibrata, il mondo ha dovuto/potuto scoprirlo molto rapidamente. Che fosse una vanesio poco credibile, è stata acquisizione da G7 e dintorni. Che la politica della sua amministrazione sia un frullato di contraddizione ed inefficienza è convinzione crescente anche tra i suoi sempre più numerosi ‘ex-sostenitori’.
Per dirla alla romana, Trump sempre più Raggi e sempre meno virgineo.
Ma Trump, al momento, prima di altri peggiori guai che potrà ancora combinare, scopriamo che è una gran bugiardo. Peggio di quelli di casa nostra, che non sono certo mentitori di poco conto, e qui, per scelta editoriale e per pietà di patria, evitiamo un elenco infinito, tra milioni di posti di lavoro promessi anni e ‘spending review’ recenti.

Trumpocchio, Trump-Pinocchio
«The liar in chief», ‘liar’, bugie, ‘in chief’, il presidente. Insomma «Tutte le bugie di Trump», elencate dal New York Times, dal suo insediamento alla presidenza. Bugiardo patologico, lo descrivono. Da uomo d’affari e di spettacolo alla Casa Bianca, quasi fosse la stessa cosa.
L’imponente antologia delle menzogne è online con schede, grafici e date dettagliate. Molti americani, spiegano David Leonhardt e Stuart Thompson, si stanno abituando alle bugie del presidente e tendono a non farci più caso.
«Se storicamente ogni presidente ha occasionalmente tentato di offuscare la verità o ha raccontato qualche balla, Trump sta cercando di creare un ambiente in cui la realtà è del tutto irrilevante». A pensarci bene, in Italia avremmo qualche esempio di casa da vantare a questo proposito.

Non solo ‘Russiagate’
Trump ha mentito spudoratamente venti volte nei primi quaranta giorni in carica. Se contiamo le ‘mezze verità’ siamo a una bugia al giorno che non toglio però i guai di torno. Menzogna e bugiette da vanesio, come dichiararsi il personaggio che ha collezionato più copertine del Time. Le sua 11 ‘cover’ mentre Nixon ne aveva messe a segno 55. Ma forse, se arriverà l’impeachement anche lui…
In molte occasioni il presidente si lascia andare in denunce ed accuse non supportate da alcuna prova. Come quando accusa il predecessore Obama di aver permesso di intercettare le conversazioni telefoniche nella sua Trump Tower di New York.
Altro vizietto è quello di attribuirsi il merito di operazioni in realtà in corso prima della sua presidenza. Conclusione degli analisti: «Se è vero che una parte dell’opinione pubblica è assuefatta dalla sistematica mancanza di integrità, è pur vero che secondo recenti sondaggi il 60% crede che il presidente Trump non sia onesto. Quanto reggerà questo equilibrio tra verità e bugie, non è dato sapere»

Addio American Dream
Grazie e The Donald, 4 italiani su 10 non vogliono più trasferirsi negli Stati Uniti. Uno su quattro non vuole più nemmeno andarci in vacanza. Con l’elezione di Donald Trump addio mito americano. Lo scopre una ricerca del Monitor Allianz Global Assistance. Gli Stati Uniti cessano di essere visti come un Paese aperto, meta ambita per studiare, lavorare e avere un futuro. Influenzati negativamente dalla nuova presidenza soprattutto i giovani fra i 25 e i 34 anni, la fascia di età più interessata alla prospettiva di un prossimo futuro americano.
Il 71% degli intervistati che considera la presidenza di Trump un fattore negativo per l’immagine del Paese. Un’immagine negativa che si riflette anche sulle scelte delle mete turistiche degli italiani: per uno su quattro la presidenza influisce negativamente sulla scelta degli Stati Uniti come meta. World Travel and Tourism Council prevede per il 2017 un calo dello 0,5% del settore turismo negli USA rispetto al 2016.

Si appanna il mito Brexit
La Regina che all’apertura dei lavori del nuovo parlamento non indossa per la prima volta la corona ma il solito estroso cappellino. Theresa May che a Bruxelles scopre, dopo la bastonata degli elettori britannici, che tra il dire e il fare c’è di mezzo il canale della Manica. E ora, tra i cittadini britannici cresce la consapevolezza che l’addio all’Unione europea non sarà un affare per il Regno Unito, sopratutto se sarà rottura e non divorzio concordato. Segnali da paura. Le due maggiori banche del Sol Levante, Daiwa e Nomura che si aggiungono alla fila delle stelle della finanza che si incamminano verso Francoforte. E accade nel paese che deve il 10 per cento del Pil alla finanza.
Ma il peggio deve ancora venire. Il quasi-monopolio di Londra sulle transazioni dei derivati in euro, un giro d’affari che sfiora gli 800 miliardi di euro al giorno. Un divorzio consensuale -scrivono gli specialisti- potrebbe consentire a Londra di tenere in casa 600 miliardi di euro di traffico in derivati. Una rottura, no.

Nazional populismo perdente
Per gli elettori britannici di istinto nazional-popolare la prossima dolorosa scoperta: fra dazi e svalutazione della sterlina rispetto all’euro, le auto tedesche costerebbero agli inglesi il 21 per cento in più di oggi. Più auto inglesi? Non è detto, perché gran parte della componenti vengono dal continente. E i consumatori britannici stanno fiutando guai in arrivo. Il 58 per cento dei britannici è pronto ad accettare concessioni sull’immigrazione dalla Ue in cambio di un accordo commerciale che sventi la rottura. Anche chi ha votato Leave, scrive Maurizio Ricci, su Repubblica, ci sta ripensando. La quota degli anti-Ue che ritiene l’immigrazione una priorità, rispetto al commercio, è crollata, in un anno, dall’83 al 69 per cento. Premessa che i sondaggi sono appunto sondaggi, l’autorevole YouGov, nel suo di sondaggio rileva che, per la prima volta, gli elettori ritengono Jeremy Corbyn un premier più adeguato di Theresa May. Ribaltone assoluto.

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