G7? O G8? Oppure “G” col contorno di numeri assortiti, a seconda dell’interpretazione che si vuol dare all’ennesima seduta dei Grandi (o presunti tali) della Terra? In effetti, ci si può sbizzarrire a inventare formule. Tanto, lasciano il tempo che trovano. Al di là delle passerelle (o, meglio, delle comparsate) oggi il mondo funziona a sghimbescio.
Ma veramente pensate che nella nostra splendida Taormina i “Grandi” perderanno il sonno per gli emarginati, le fiumane di profughi in arrivo dai quattro cantoni della disperazione, le vittime delle aree di crisi e per i risparmiatori inguaiati dagli Stati predoni e salassati dalle banche?
Il G7 fa ormai parte di una liturgia diplomatica superata dalla storia. La riunione non nasce per salvare il mondo dall’apocalisse ma, più prosaicamente, le sue origini vanno ricercate nel retrobottega di un sistema capitalistico ormai giunto al capolinea. Per molti motivi. Seppellito dai calcinacci della storia il marxismo, come modello economico e sociale, con quello che ci è rimasto non abbiamo molto da scialare. Gli studiosi di strategia direbbero che c’è una vistosa asimmetria di sviluppo. Ormai orfani delle ideologie, siamo costretti a navigare a vista e ad aguzzare gli occhi per non finire sugli scogli taglienti di una crisi appresso all’altra.
Gli specialisti la chiamano “transizione di fase”. Non siamo più, insomma, quello che eravamo prima e non siamo ancora quello che vorremmo essere. Così il pianeta finisce per essere governato da un incredibile intreccio di modelli probabilistici e da una raffinata architettura di ricatti e controricatti diplomatici. Ma quale G7! Oggi le decisioni importanti si prendono guardando negli occhi il proprio interlocutore, nel chiuso delle Cancellerie. Il fine giustifica i mezzi? Peggio. I mezzi sono utilizzati a casaccio e il fine si è perso di vista. È avvolto dalle nebbie degli interessi nazionali. Vogliamo fare la prova del nove? Andiamoci a guardare gli obiettivi fissati dai precedenti incontri.
C’è da mettersi le mani nei capelli, quando ci si accorge che la forbice tra quanto concordato e quello che poi si è raggiunto è abissale.
Si fa finta di parlare di tutto, per non parlare di niente o, meglio, per passare in rassegna i problemi che interessano tutti in misura divergente e per cercare soluzioni soprattutto alle crisi che colpiscono il portafogli di ognuno.
E allora, facciamola corta: lasciamo perdere i comunicati, che testimonieranno il chiacchiericcio collettivo. A Taormina, dietro le tende e nelle ombrose stanze degli splendidi alberghi, si parlerà soprattutto di finanza internazionale e di banche.
Saranno affrontati anche i temi della sicurezza, delle aree di crisi e delle migrazioni internazionali. Perché la pace costa e i nuovi padroni del vapore vogliono che il biglietto sia pagato da tutti. Non resta molto da aggiungere.
Il prossimo vertice servirà soltanto a raccogliere i cocci di quello attuale, incollandoli col mastice dell’ipocrisia e spacciando per nuovo tutto ciò che è terribilmente stantio e odora di egoismo ancestrale.
La nostra speranza è che qualcuno, in futuro, trovi la forza di gridare: “Fuori i mercanti dal Tempio”.