Partiamo ancora una volta da Amedeo Ricucci, ma ‘alla rovescia’, dalla conclusione del suo accorato ‘bis’ su Gabriele, come lo chiama affettuosamente avendone confidenza.
«Il mio post era partito da una riflessione non tanto su quello che Gabriele aveva fatto o detto, quanto sulla rappresentazione mediatica che era stata data dalla sua vicenda: quella cioè che ne aveva fatto un eroe oppure un mostro. In pochi se ne sono ricordati e questo mi fa tristezza. È l’ennesima conferma che su Facebook i ragionamenti un po’ più complessi del solito BIANCO/NERO hanno poco spazio. E non conta quello che dici ma quello che gli altri vogliono farti dire».
Anche Remocontro si era trovato a replicare a molto osservazioni che ci erano apparse fuorvianti. Chiarimento utile che fa il paio con quanto ha detto sopra Amedeo.
«Una sola considerazione ancora da parte mia. Migliaia di giornalisti seri e valorosi scrivono con coraggio e senza remore da Paesi governati da despoti e dittatori senza farsi arrestate o farsi ammazzare. Nomi indiscussi nella storia del giornalismo e non nelle leggende. Ciò va detto a difesa dei colleghi ancora operativi in zone decisamente pericolose del mondo che bene ci informano senza diventare loro la notizia, che è l’errore assoluto del mestiere.
Che la Turchia sia uno stato autoritario con derive dispotiche è noto e fuori discussione. Che il fermo di due settimane di Gabriele De Grande sia un intervento di polizia consentito da leggi emergenziali assurde, altrettanto scontato. Che la Farnesina dovesse intervenire, faceva solo parte dei suoi doveri e lo ha fatto bene. Che il ministro Alfano abbia scelto di sbandierare il rilancio di Gabriele Del Grande come un successo personale è solo meschinità sua».
Ancora Amedeo Ricucci, puntiglioso.
1. […] Sono finiti i tempi della “casta” giornalistica che decideva quali fossero le notizie, quali le modalità per confezionarle e diffonderle, quale la gerarchia da imporre all’opinione pubblica. Proprio per questo, da cittadino prima che da giornalista, mi sento in diritto di criticare il lavoro dei colleghi – quando, secondo me beninteso, violano le regole della professione (perché questo nuoce a noi tutti) – oppure perché informano male e in maniera non corretta (e questo nuoce all’opinione pubblica) […].
2. […] Quel post [su Gabriele] l’ho scritto, non a caso, dopo la sua liberazione, per la quale anch’io mi sono mobilitato, come chiunque può verificare, perché ritenevo che innanzitutto bisognasse riportare Gabriele a casa. Poi, solo poi, ho voluto chiare “due o tre cose” che mi sembravano importanti. Ed ho voluto metterci la faccia perché conosco Gabriele e lo stimo, il che (speravo) mi avrebbe messo al riparo dalle accuse scontate di avere un pregiudizio nei suoi confronti […].
E qui Amedeo si offende per alcune delle accuse che gli sono state rivolte. Quella di aver tradito una amicizia, ad esempio, o addirittura di ‘attacco vile’. Eppure il rispetto nei confronti di Gabriele che permeava tutto il suo post.
«Hanno un’idea diversa dell’amicizia: pensano cioè che debba essere cieca, stupidamente cieca, da esibire cioè anche a dispetto dell’evidenza e rinunciando all’esercizio dell’intelligenza critica, in nome di chissà quale militanza. Io invece penso che le critiche servano, sempre, e se vengono fatte in buona fede, senza pregiudizi di sorta, aiutano a far meglio questo lavoro […]»
Sul giornalismo variamente inteso e poco praticato. La trasgressione delle regole per scoprire pezzi di verità.
«Mi limito ad invitare questi signori a leggersi un po’ più in dettaglio la storia del Watergate, una delle pagine più nobili del giornalismo (non solo americano), magari per scoprire quanta fatica ebbero a fare Bernstein& Woodward – i due autori di quello scoop che portò alle dimissioni di Nixon – pur di portare avanti la loro inchiesta nel rispetto delle regole imposte dalle leggi vigenti».
La differenza tra un po’ di polemichetta politica che dura un giorno o costringere alle dimissioni un presidente.
3. Accredito stampa e dintorni. «I più avveduti fra i miei critici mi hanno spiegato che avere o meno l’accredito stampa in Turchia fa poca differenza. Ma non è vero: come dimostra il caso del giornalista inglese fermato negli stessi giorni di Gabriele – è stato rilasciato dopo qualche ora – e come posso testimoniare anch’io, fermato a Killis meno di un anno fa, con tanto di accredito: mi hanno bloccato per tre ore, ho dovuto cambiare il mio programma di lavoro ma quel pezzo di carta mi ha comunque salvaguardato. Certo, dopo il tentato golpe dell’estate scorsa la libertà di stampa in Turchia è molto più a rischio. Ma proprio per questo mi chiedo: non era forse il caso di non rischiare troppo e di volare più bassi, soprattutto in considerazione del lavoro assai delicato che Gabriele stava portando avanti (un’inchiesta su ISIS)?»
Infine una accusa che in parte ha colpito anche Remocontro. L’aver dato la stura alla ‘macchina del fango che si è messa in moto contro Gabriele’. Macchina del fango o montatura sul caso Gabriele? Ricucci, che è buono, si limita ad assumersi la responsabilità delle sue opinioni, «Io non mi nascondo dietro una foglia di fico e non ho paura delle mie idee quando sono scomode e fuori dal coro». Lo aveva fatto ai tempi delle due irresponsabili ragazze sequestrate in Siria.
«Così come dissi che Greta & Vanessa, due mie amiche, avevano sbagliato ad andare in Siria – e lo dissi anche quella volta ben dopo la liberazione – allo stesso modo non mi sento vincolato da una stupida omertà sulla vicenda di Gabriele».
Remocontro che è il cattivo, non solo è stato molto più severo allora, nel giudizio nei confronti di Greta e Vanessa, ma sul caso Gabriele Del Campo cambia bersaglio.
A porre al centro dell’attenzione e di tante critiche il giovane Gabriele Del Campo è stata sopratutto la irresponsabile gestione stampa dal ministro degli esteri Alfano e del suo apparato di pubbliche relazioni platealmente elettorali a spese della Farnesina. Col giovane protagonista trascinato ad assumersi ruoli forzati e non propri.
E con ciò, salvo una spazio che volesse chiedere lo stesso Gabriele Del Campo (o il ministro Alfano), per Remocontro il caso è chiuso. Ora libero web in libero stato, e non lapidateci.