
Non sono i gelidi Balcani dei muri degli egoismi nazionali in queste foto, ma la zona di confine tra gli Stati Uniti di Trump da cui fuggire e il civilissimo Canada dell’accoglienza. Due Paesi nati dall’immigrazione e da poco, strade divergenti che prima o poi creeranno problemi. Il 28 gennaio, il primo ministro canadese Justin Trudeau aveva lanciato un chiaro messaggio su Twitter: «A coloro che scappano dalla persecuzione, dal terrore e dalla guerra, sappiate che il Canada vi accoglierà, indipendentemente dalla vostra fede. La diversità è la nostra forza».
Ogni anno circa 26mila migranti chiedono asilo politico in Canada, ma secondo alcune organizzazioni sta aumentando il numero di quelli che lo chiedono provenendo dagli Stati Uniti. Infatti sarebbero già centinaia, dall’inizio dell’anno, i profughi – soprattutto siriani o dell’Africa orientale – che hanno deciso di lasciare il territorio statunitense dopo le prime mosse in materia d’immigrazione intraprese dal presidente Donald Trump. Gli esperti della sicurezza canadese temono che molti altri potrebbero arrivare con la bella stagione.
Ed emerge un primo problema, politico-giuridico. Per permettere una piena accoglienza dei profughi il Canada dovrebbe sospendere l’accordo bilaterale firmato nel 2004 tra Canada e Stati Uniti, il Safe third country agreement, che impedisce a Ottawa di accogliere nel paese i rifugiati che provengono dagli Stati Uniti. Anche se la legge prevede qualche eccezione, molti profughi sono già stati respinti al confine, e alcuni di loro che avevano cercato di attraversarlo illegalmente sono stati arrestati e trattenuti dalle autorità canadesi.
«Non esiste il canadese modello. Non c’è nulla di più assurdo della definizione “all Canadian”. Una società che enfatizza l’uniformità crea intolleranza e odio». Con queste parole, l’8 ottobre 1971, l’allora premier Pierre Trudeau spiegò perché aveva deciso di trasformare un concetto fino ad allora teorico -il multiculturalismo- in «politica ufficiale» del suo governo e di quelli che seguirono.
Di padre in figlio, 46 anni dopo, un altro Trudeau, Justin, rilancia un principio che con il tempo sembrava essersi appannato.
Il 27 giugno scorso, il giovane premier aveva messo nero su bianco la filosofia nazionale, con una dichiarazione che sembra la continuazione di quella del padre: «Il multiculturalismo è la nostra forza, sinonimo di Canada quanto lo è la foglia di acero. Le nostre radici raggiungono ogni angolo del pianeta».
E la distanza che separa il Canada dagli Stati Uniti, ma anche dall’Europa della Brexit e del nazional populismo non mai stata così ampia. «Siamo i campioni solitari del multi culturalismo tra le democrazie occidentali», dice Stephen Marche, scrittore ed opinionista canadese. «Questa solitudine ci accompagnerà nei mesi e negli anni a venire, forse per sempre».
Trudeau lo sa e ne sta facendo il perno della sua politica: «A chi sta fuggendo persecuzione, terrore e guerra… i canadesi vi daranno il benvenuto, a prescindere dalla vostra fede», ha twittato dopo l’altolà di Trump.
Netta le differenza, e lo spessore intellettuale e morale che si coglie tra l’astioso Donald Trump, e il giovane liberal di Québec, Canada.