Battaglia di Jena e le provocazioni di confine verso il Baltico

Come in molte guerre dei secoli passati, il motivo scatenante fu essenzialmente l’onore. Quando -dopo la vittoria di Austerlitz su Russia ed Austria- Napoleone intimò alla Prussia di ritirarsi da alcune zone della Germania, Federico Guglielmo III rispose no. Poiché però il sentimento dell’onore, per quanto forte e radicato, di solito da solo non basta a vincere una guerra, restava salda la convinzione prussiana di essere imbattibili, soprattutto perché eredi di Federico il Grande che aveva già sconfitto in tante battaglie i nemici della Prussia. Dei tempi di Federico però erano rimaste intatte soprattutto la disciplina rigida fino all’inverosimile (che si basava anche sulle frustate) e la ripetizione ossessiva della vecchia tattica di allineamenti perfetti al centimetro, ovvero una coreografia impeccabile più che l’arte della guerra.

Di fronte alla facciata prussiana, in apparenza ordinata e ben costruita, dall’altra parte i francesi avevano imparato a muovere grandi masse di soldati per concentrarle rapidamente nel punto decisivo, come appunto era accaduto ad Austerlitz. Delle grandi idee della rivoluzione, anima delle armate francesi nelle guerre precedenti, era invece rimasto poco, ma verrebbe da dire quel tanto sufficiente ad imprimere comunque uno slancio diverso. Il soldato francese insomma era ben diverso da quello prussiano perché in Francia il cammino percorso verso la modernità era stato più lungo, anche se molto accidentato. In Prussia era prevalso invece lo spirito di conservazione concentrato su forme esteriori e la conseguenza diretta fu la sconfitta subita a Jena ed Auerstadt. Più che ai meccanismi delle due battaglie, basti pensare che il numero dei prigionieri prussiani e sassoni rappresentò quasi il trentacinque per cento degli effettivi.

napoleon-jena-fb

In un memorabile dispaccio Murat, alludendo al grande numero di prigionieri, annunciò spavaldamente che i combattimenti erano finiti “per mancanza di combattenti”. Napoleone, entrando a Berlino il 27 ottobre, girò ulteriormente il coltello nella piaga: dichiarandosi discepolo ed ammiratore di Federico il Grande, chiese come mai proprio i generali prussiani si fossero dimostrati così mediocri e tutt’altro che all’altezza del grande maestro. Dalla sconfitta allora venne una lezione salutare: cominciarono le riforme anche in Prussia – rimasta fino a quel momento uno stato feudale – e negli ambienti intellettuali si cominciò a riflettere sulla guerra a partire dai rapporti con la politica. Più o meno una ventina d’anni dopo cominciò a circolare un libro intitolato “Della guerra”, scritto da un generale che si chiamava Carl von Clausewitz e aveva letto Kant: per capirlo in pieno però ci volle un altro secolo e soprattutto un’altra clamorosa sconfitta tedesca nel 1918.

L’altra immagine della vittoria di Napoleone, anche se non sappiamo veramente quanto sia reale – sebbene tratta da una sua lettera -, è il commento di Hegel che incontra l’imperatore dei francesi a cavallo mentre entra nella città di Jena: “ho visto”, scrive, “lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta”. Per un secolo fino alla Prima Guerra mondiale la guerra diventò allora la continuazione della politica con altri mezzi, lo spirito di una nazione tentò di dominare le altre, ogni stato trasformò efficientemente i propri cittadini in soldati obbedienti e Francia e Germania si affrontarono ripetutamente. Eppure, all’alba del 14 ottobre 1806, in mezzo ad una fitta nebbia,ai francesi partiti all’attacco delle posizioni prussiane era sembrata una battaglia come tante altre. Napoleone scrisse addirittura che si era trattato di “una gran bella manovra”, forse non rendendosi conto del significato di quella sconfitta prussiana.

Condividi:
Altri Articoli
Remocontro