
Mentre era in corso il derby Como Lugano sulla questione dei lavoratori italiani in Svizzera, a Vienna, nel week end si è verificato un evento clamoroso. La Merkel d’accordo con Tsipras, i Serbi coi Croati, i Greci che cercano di concordare misure sinergiche con Albanesi e Macedoni.
Che nei Balcani sia scoppiata la pace? In un certo senso sì, ma teniamo conto che nelle realtà con qualche memoria tribale la riappacificazione tra coloro che erano stati tradizionalmente ostili costituisce il preludio a una guerra non appena si profila un nemico esterno.
E questa volta, visto che stiamo parlando di Stati che costeggiano la così detta rotta balcanica su cui si sono avventurati centinaia di migliaia di profughi, gli esterni altri non sono che coloro ai quali il compianto Ivan Illich aveva attribuito l’etichetta di ‘’cavalieri dell’apocalisse’’ prossima ventura. Vale a dire i profughi richiedenti asilo, prevalentemente siriani.
Perché, anche se poco se ne parla, sussiste l’unanimità tra i Paesi sopra citati e altri ancora nel giudizio da dare sull’accordo di marzo a Vienna sui profughi, steso tra Ue e Turchia su proposta di Angela Merkel: L’ACCORDO FUNZIONA.
Un’affermazione clamorosa se si pensa che il medesimo accordo era stato subissato da critiche, sia perché se ne prevedeva l’inefficacia, sia perché appariva come una concessione alla Turchia in quanto lesivo, più o meno direttamente, dei diritti umani dei nemici del Sultano di Ankara, in primo luogo dei Kurdi.
Non staremo qui a rievocare nei dettagli i contenuti dell’accordo che prevedeva in sostanza la libera circolazione dei cittadini turchi in Europa e aiuti nell’ordine dei 3 miliardi (replicabili) se la Turchia si fosse fatta carico di frenare il flusso dei profughi verso i Balcani, soprattutto verso la Grecia e in piccola misura verso la Bulgaria, attivando un meccanismo di scambio abbastanza complesso, che prevede la collocazione in Europa di rifugiati in Turchia aventi diritto alla protezione (sicuramente i Siriani, sugli altri si discute) con in cambio l’accoglimento in Turchia, con ignoto destino, di aspiranti profughi che già hanno superato i confini turchi, ma cui venga negato il diritto di essere accolti altrove
Sui primi risultati dell’accordo Ue/Turchia si è tenuto nel week end a Vienna un mini-summit sull’immigrazione, organizzato su iniziativa del cancelliere austriaco Christian Kern e incentrato sulla situazione dei flussi migratori lungo la “rotta balcanica”. Presenti nella capitale austriaca i capi di governo di Albania, Bulgaria, Germania, Grecia, Croazia, ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom), Serbia, Slovenia e Ungheria.
Anche i vertici dell’Unione europea sono stati presenti a Vienna, nonostante una iniziale presa di distanza dal vertice percepito come un’iniziativa autonoma dell’Austria in coordinamento con i paesi dei Balcani.
In sintesi, mentre la Ue litiga a più non posso sul come aprire ai profughi e ricollocarli al suo interno, un elevato numero di Paesi Ue e non solo raggiunge un accordo unanime sul come tenerli fuori dalla porta o comunque farli entrare col contagocce.
Pochi ne parlano in Italia
Diffusamente ne riferisce il Manifesto di domenica: il titolo è fortemente accusatorio “I duri dettano legge”. Il testo di Carlo Lania è però giustamente molto più problematico.
E’ vero che l’accordo ha fin qui legittimato violazioni dei diritti umani a volontà, in Grecia come in Turchia (Medici senza frontiere ha addirittura rifiutato finanziamenti Ue per non rendersi complice) e non a caso viene gradito dai falchi della Ue come Ungheresi e Polacchi, tanto da comportare un’organizzazione internazionale congiunta e renderlo militarmente più efficace. Però quell’aggettivo “i duri” dovrebbe implicare che da qualche parte esistano anche dei “teneri” di cui non si vede l’ombra.
Di fatto, proviamo a vedere in cosa abbia FUNZIONATO l’accordo.
Una efficacia limitata per quanto riguarda lo scambio tra Turchia e Ue. Qualche centinaio in entrambe le direzioni.
Per contro un successo strepitoso in termini di impatto, di risultati cioè che non si collocavano solo tra gli obiettivi specifici del progetto in quanto tale, ma ne rappresentavano la ricaduta e la missione in quanto tale.
In breve la “rotta balcanica” si è quasi totalmente prosciugata: i dati, in continuo aggiornamento, parlano di un flusso Turchia Grecia di poche decine alla settimana, gocce rispetto all’onda degli 800mila disperati dello scorso anno.
Pure la ricaduta su altre rotte, come quella mediterranea che più ci interessa non sembra devastante. Per ora piccoli aumenti contenuti nei limiti percentuali di un solo decimale. Comunque sia c’è il rischio che il “successo” dell’iniziativa comporti una sua replica mediterranea. Beneficiario, questa volta, potrebbe essere l’Egitto di Al Sissi, altro garante dei diritti umani ben noto in Italia.
Torniamo però un attimo, per finire, alla questione dei “duri” e dei “teneri”.
Va bene che l’accordo di Vienna vede protagonisti Paesi che dei diritti umani non paiono avere un rispetto eccezionale, ma una cosa è certa. Un accordo internazionale coi Paesi coinvolti, Turchia in primis, era diventato inevitabile.
Il punto era ed è solo uno: se da Erdogan e compagnia ci vai unito e gli proponi un progetto alto che preveda l’entrata in Europa, mediante ricollocazione su vasta scala, di un gran numero di profughi puoi ricavarne qualcosa di buono e soprattutto esercitare una vigilanza dura sulle modalità di realizzazione dell’accordo.
Se invece con la scusa che lui è cattivo non ti vuoi sporcare le mani, come fanno Francia e Gran Bretagna, ti restano due soluzioni.
O non fai accordi e allora lui, per bene che ti vada si tiene i profughi per invadere le zone abitata dai Kurdi con tanti saluti ai residui diritti di entrambi. Oppure si arriva a un accordo basso come quello benedetto a Vienna e allora hai un bel cantare gli elogi dei diritti umani.
Chi piange gridando jamais agli accordi col Sultano e poi mostra il volto della liberté occidentale piangendo miseria e giustificando gli obbrobri di Calais, contro 9mila attendati sulla spiaggia merita solo un Nobel, quello dell’ipocrisia.