
Certo occorreva essere dei visionari per concepire e scrivere un documento come il “Manifesto di Ventotene”, opera in primo luogo del grande Altiero Spinelli, e poi di Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann e Eugenio Colorni. Visionari perché il pamphlet fu redatto tra il 1941 e il 1944, anni tremendamente bui, nei quali la barbarie nazista aveva il pieno controllo di quasi tutto il suolo europeo e gli oppositori morivano a migliaia nei lager.
Gli antifascisti furono in un certo senso più fortunati, giacché il regime li confinò in un luogo splendido, concedendo loro di comunicare, di scrivere e addirittura di tenere cicli di lezioni indirizzati ai reclusi meno istruiti. Al punto che l’isola diventò una vera e propria palestra di antifascismo, ponendo le basi per la successiva rinascita democratica del nostro Paese.
A ispirare Spinelli e i suoi compagni di prigionia fu un’idea bellissima e, al contempo, assai difficile da mettere in pratica. L’Europa, annichilita da due guerre mondiali successive e a quei tempi dominata da un regime che negava i fondamenti stessi della civiltà occidentale, era sprofondata in un clima di barbarie che non lasciava molto spazio a sogni e a progetti di palingenesi.
Eppure gli autori del “Manifesto”, tutt’altro che scoraggiati, il sogno lo coltivarono in modo sistematico, coscienti che soltanto l’unione delle molte tradizioni politiche e culturali europee avrebbe consentito di uscire da un tunnel che sembrava non avere mai fine. La parola magica per attuare il progetto era “federalismo”, sulla scorta dei famosi “Federalist Papers” di Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, che ebbero un ruolo fondamentale nella nascita degli Stati Uniti d’America e nella stesura della loro Costituzione.
Sulla strada di questi antesignani dell’unità europea si frapponeva però un ostacolo formidabile. I padri dell’indipendenza americana possedevano – tutti – un background politico e culturale comune, forgiato e affinato nella lotta d’indipendenza dalla Gran Bretagna. Spinelli e gli altri non avevano nulla di comparabile a disposizione, giacché l’Europa era composta da Stati-nazione eredi di civiltà e tradizioni al contempo antichissime e in gran parte alternative tra loro.
Era quindi necessario gettare il cuore oltre l’ostacolo ed essere, come ho osservato all’inizio, “visionari” nel senso positivo e alto del termine. In altre parole bisognava far capire agli europei, per lo più incapaci di identificarsi come tali, che soltanto l’unione avrebbe consentito al Vecchio Continente di tornare a giocare un ruolo di primo piano nella scena internazionale. Non dimentichiamo, infatti, che a guerra ancora in corso già erano evidenti i segnali di un mondo bipolare, dominato dai due colossi Usa e Urss.
Le vecchie potenze europee apparivano chiaramente al tramonto. La Francia sconfitta in tempi brevissimi e occupata dai nazisti. Il Regno Unito ancora in grado di resistere, ma col fiato grosso. La Germania aveva venduto l’anima alla dittatura forse più spietata della storia. L’Italia anch’essa asservita al nazismo e incapace di svolgere un ruolo autonomo. Gli autori del “Manifesto”, lungi dallo scoraggiarsi, prefigurarono un continente unito nel quale le notevoli differenze e le antiche rivalità venissero tramutate in fattori positivi, in grado di restituire all’Europa il posto centrale che a loro avviso le spettava.
Utopia? Ovviamente sì, ma è noto che, in fondo, le utopie muovono la storia. Iniziò così il lungo processo d’integrazione che, per alcuni decenni, fu incoraggiato e promosso da leader politici di notevole statura. Anche se, sin dagli esordi, era evidente che si stava soprattutto procedendo – per comodità – lungo il binario privilegiato dell’economia e degli scambi commerciali, lasciando a un “dopo” non meglio definito lo sviluppo dell’integrazione sociale, politica e culturale.
Il problema è che questo secondo – e fondamentale – stadio ha avuto luogo in misura limitatissima e del tutto insufficiente. L’attuale UE assomiglia ben poco all’Europa immaginata di Spinelli. E’ una struttura burocratica ancora dedita in primo luogo all’economia e al commercio, spesso fonte di regole assurde (e decise in circoli ristretti) che hanno esacerbato, anziché diminuire, differenze e rivalità.
Inoltre c’è stata una decadenza della classe politica europea che è evidente a tutti. I tre leader riuniti sulla portaerei Garibaldi, al largo di Ventotene, assomigliano ben poco alle grandi figure che vararono il processo di unità continentale. Ne è riprova il fatto che non sanno bene come affrontare i problemi drammatici di oggi, e ne cito solo due: la Brexit e la tragedia dei migranti.
Questo è lo stato delle cose ai nostri giorni. Il quadro generale è pessimistico, e non certo per volontà di chi scrive. Se ci sarà un colpo di reni in grado di far uscire la UE dall’attuale stallo recuperando l’ottimismo spinelliano è difficile dire. Chi propende per il no ha già posto una pietra tombale sul “Manifesto”. Chi – nonostante tutto – è ancora a favore del sì, si sforza di non far morire il sogno. Ma è ovvio che un esito positivo si avrà solo cambiando in maniera profonda natura e intenti dell’Unione Europea.