
Il tentato golpe in Turchia di quasi 10 giorni fa rimane ancora avvolto nel mistero. L’inadeguatezza dei militari golpisti e la repentina e decisa reazione del presidente Erdogan hanno lasciato un vuoto di notizie, colmato da illazioni, insinuazioni, teorie e teoremi non verificati, né facilmente verificabili. E sempre più domande rimangono ancora oggi senza risposta.
La decisione con cui Erdogan ha da subito guidato il contro-golpe, ha prodotto in molti il dubbio che il golpe fosse “fasullo”. Ovvero fabbricato dallo stesso presidente per aumentare ulteriormente i suoi poteri e fare fuori gli oppositori interni. Si dice infatti che le liste di coloro che sono stati arrestati fossero già pronte da tempo.
Ma per quanto ragionevole, rimane un dubbio, non suffragato da prove. Se non l’estremo cinismo a cui Erdogan ci ha abituato negli anni. E alcuni misteri sulla condotta dei congiurati. Perché gli F-16 che hanno avvicinato l’aereo presidenziale Gulfstream IV e i due F-16 che lo scortavano non hanno sparato?
Un ex ufficiale dell’esercito turco sostiene che i jet golpisti avevano bloccato nel mirino gli aerei del presidente, ma non hanno fatto fuoco. Il perché rimane un mistero. Alimentando i sospetti.
I dubbi sul ruolo dell’Occidente
Di domande rimaste senza risposta ce ne sono ancora parecchie. E non tutte vanno nella stessa direzione. Molte di queste riguardano il comportamento delle potenze occidentali alleate della Turchia. Nelle prime ore del golpe in diretta TV, nessuna cancelleria occidentale ha detto niente. Soprattutto nessuno ha espresso chiara contrarietà alle manovre dei militari. Un atteggiamento che, per lo meno, tradisce una poco dissimulata speranza di veder detronizzato il presidente turco, sempre più ingestibile e ingombrante.
Perché la rete di informazioni televisiva americana NBC ha messo in giro le notizie, poi riprese da gran parte dei media nostrani, di un Erdogan che si aggirava per i cieli di mezzo mondo chiedendo rifugio, puntualmente negato?
Prima Berlino, poi Londra, Roma e infine Qatar. Vero, falso? La NBC ha dichiarato che le fonti della notizia erano provenienti niente meno che dall’esercito USA. Un articolo della Reuters sostiene che i jet golpisti partiti dalla base aerea di Akinci, vicino ad Ankara, siano stati riforniti in volo da un aereo cisterna partito dalla base aerea di Incirlik.
Ovvero, la base usata dagli Stati Uniti per i raid contro lo Stato Islamico e dove sono custodite circa 90 testate nucleari tattiche americane. Il generale Bekir Ercan Van, a capo della base, è poi stato arrestato e la base chiusa alle operazioni. Poi riaperta. E poi nuovamente richiusa, dopo che dalla stessa sono mancati all’appello 42 elicotteri.
Incirlik o cara
Intanto il comandante delle Forze Aeree turche Akin Öztürk è stato arrestato e ha confessato di aver progettato il golpe, poi fallito. Öztürk tra il 1998 e il 2000 ha lavorato come funzionario all’ambasciata turca di Tel Aviv, in Israele.
Altre domande sorgono quindi spontanee. Chi sapeva? Come è possibile che a Washington fossero sfuggiti i movimenti dell’esercito turco? E, nel caso, perché non hanno avvisato il governo turco alleato?
Il presidente americano Barack Obama ha espresso la sua vicinanza al governo democraticamente eletto solo quando le probabilità di fallimento del golpe erano chiare. Intanto, la Francia aveva chiuso due giorni prima del colpo di stato i suo uffici consolari. È legittimo chiedersi se anche a Parigi si sapesse qualcosa. E perché, se fosse così, non è stato detto nulla in anticipo.
Il ruolo di Fetullah Gulen
Questi, come altri, sono solo quesiti senza risposta. Non sono gli unici, e si vanno a sommare a quelli che oggi portano alcuni a credere al golpe fai da te, orchestrato dallo stesso Erdogan. Accusa mossa apertamente dal nemico, una volta alleato, di Erdogan, il potente imam turco Fetullah Gulen, in autoesilio in Pennsylvania dal 1999. Nonché il principale imputato dal presidente turco per il tentativo di golpe.
Ed è attraverso la sua figura che le relazioni tra Ankara e Washington si sono incrinate fino al quasi scontro nei giorni successivi alla congiura fallita. Erdogan lo ha scandito chiaramente: “chi dà protezione a Gulen è nostro nemico”. Ma dalle parti del governo turco si è andati anche oltre. Il ministro del Lavoro ha direttamente accusato Washington di essere dietro al tentativo di golpe militare.
Una tesi questa che trova spazio anche tra storici e ricercatori internazionali e ripresa ampiamente dai media russi in lingua inglese. Aprendo un nuovo capitolo della ‘information warfare’ tra NATO e Russia. La risposta a tali accuse del segretario di Stato americano John Kerry non si è fatta attendere: la Turchia non deve insinuare responsabilità che possano rovinare le relazioni bilaterali tra i due paesi. Ma ad Ankara non sembrano preoccuparsi per il momento.
Proteste d’obbligo e timori veri
Le purghe che Erdogan ha attivato, alterando lo stato di diritto, stanno agitando gli uffici della NATO. La Turchia fa parte dell’Alleanza Atlantica dal 1952, ma uno degli obblighi nell’Alleanza è di essere una democrazia e rispettare lo stato di diritto.
Il ministro degli Esteri francese ha sottolineato che la Turchia non può più essere considerata un partner affidabile nella lotta allo Stato Islamico.
L’Unione Europea ha invece ribadito che nessuno stato che applica la pena di morte può aderire all’Unione. Il parlamento turco dovrà infatti decidere se reintrodurre la pena di morte in seguito al tentato golpe. Proposta da Erdogan, ha subito infiammato la piazza dei suoi sostenitori ed è molto facile che, se portata all’Assemblea Generale, la proposta passi, vista la disponibilità a votarla dei nazionalisti del MHP.
Rimane il braccio di ferro sul destino di Fetullah Gulen, che in molti dicono essere protetto direttamente dalla CIA. La Turchia sta provocando gli Stati Uniti, chiudendo la base di Incirlik. Come a dire: “possiamo bloccare le vostre operazioni in Medio Oriente”. E la NATO sta ora pensando se è il caso di spostare le armi nucleari depositate in quella base e riporle in luogo più sicuro, magari ad Aviano, in Friuli Venezia Giulia.
Turchia e Stati Uniti nella geopolitica regionale
Sullo sfondo c’è uno scenario geopolitico complesso, nel quale spiccano le giravolte turche delle ultime settimane. In poco tempo Ankara ha dato una svolta di 180 gradi alla sua politica estera.
Ha ripreso pienamente i rapporti con Israele (con cui non erano mai venute meno le relazioni militari), rotti in seguito al caso della Mavi Marmara nel 2010.
Ha avviato le procedure di scuse verso la Russia, riaprendo anche le discussioni sul Turkish Stream (gasdotto turco-russo), dopo che lo scorso ottobre jet turchi hanno abbattuto un SU-24 russo al confine con la Siria.
Infine, il primo ministro turco Binali Yildirim, che ha sostituito il dimissionato Davutoglu, si è pronunciato per normalizzare le relazioni con la Siria di Bashar al-Assad, dopo che la Turchia è stata per anni il primo sponsor delle forze di opposizione al leader siriano.
Anche per paura che gli Stati Uniti puntino alla frammentazione della Siria, dalla quale nascerebbe uno stato curdo ai confini meridionali della Turchia.
Turchia e Stati Uniti matrimonio d’interesse
Le relazioni tra Turchia e Stati Uniti non sono mai state così tese, quasi sul punto della rottura. Però, a guardare oltre le parole, la Turchia ha bisogno degli Stati Uniti. E viceversa. Il gioco della Russia di accettare le scuse turche e ora accusare Washington di aver orchestrato il colpo di stato serve solo ad esasperare le relazioni interne alla NATO. La Turchia può alzare la voce. Ma se prova a guardarsi intorno trova il deserto.
L’ingresso nell’Unione Europea è fermo e senza reali possibilità di ripartire. E in ogni caso l’ingresso nella UE e l’uscita dalla NATO non porterebbe grandi vantaggi strategici alla Turchia. Per il resto si tratta di potenziali nemici: Russia, Iran, Siria… Alla Turchia, alla fine, non rimane che Washington. E a Washington perdere la più importante piattaforma operativa di contenimento della Russia e di gestione dell’alta Mesopotamia non è un’idea che possa esser presa seriamente in considerazione.
Sempre che la situazione non degeneri, passando dalle accuse ai fatti. La Turchia tende a giocare al rialzo, ma non ha la forza di rompere le sue alleanze. Solo tre paesi hanno espresso solidarietà ad Erdogan dai primi minuti del golpe: Marocco, Sudan e Qatar. Troppo poco per rompere con Washington.