Un appello firmato da vari intellettuali (tra i quali il regista Paolo Virzì) sostiene che Maria Edgarda Martucci, universitaria di 25 anni, è stata condannata il 15 giugno scorso alla pena di due mesi di reclusione solo per aver scritto, nella sua tesi di laureanda in sociologia, i fatti avvenuti il 14 giugno 2013 in Val di Susa. Ai quali, scrivono, avrebbe assistito da semplice studiosa, e aggiungono che “cose del genere succedono solo nelle peggiori dittature”.
Di più: Martucci e Virzì sostengono che “chi si oppone alla realizzazione del Tav è oggetto di interventi repressivi e sono indagate in valle circa mille persone”. Virzì e Martucci si sono sbagliati, gli indagati sono 183, non mille, per questi reati: violenza privata, resistenza a pubblici ufficiali, uso di materie esplodenti, danneggiamento e ingresso arbitrario in luoghi militari.
Discutibile anche la motivazione di Virzì e di altri suoi amici: gli imputati sono responsabili soltanto di “eventuali gesti simbolici”. Insomma l’Italia è un paese ormai vicino al fascismo, e gli eventi simbolici sono sciocchezze come lanci di bombe carta, biglie “sparate” con la fionda contro polizia e carabinieri. Oppure annunciare con aria di sfida di non voler rispettare l’obbligo di presentazione periodica in una stazione dei carabinieri.
Il Procuratore della Repubblica Armando Spataro sostiene che la protesta è legittima e salutare in democrazia se attuata nei confini della legge. Ma se è praticata da persone con il viso coperto da passamontagna, armate di bastoni e bombe carta, che intimidiscono i passanti, bloccano strade e veicoli -chiede Spataro- questa che cosa è se non violenza teorizzata e praticata?
Continua a non essere chiaro cosa c’entra, nella tesi di laurea di Maria Edgarda Martucci, l’antropologia culturale con il lancio di bombe carta o peggio. Spataro osserva che in questo modo il movimento NoTav e le sue motivazioni ne esce indebolito, perché diventa solo uno scontro di stampo militare. Ed è difficile coniugare l’antropologia culturale con le bombe carta, o peggio.