
Una carriera politica costruita sulle sbruffonate, quella di Boris Johnson, ex sindaco di Londra e accanito sostenitore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Messo di fronte all’impresa di gestire l’avventatezza della scelta, la fuga il sette parole, sette: «Non mi candido alla leadership dei Tory», ha detto Boris Johnson, che ha lasciato la sala della conferenza stampa senza dare ulteriori spiegazioni. In realtà, al biondo scapigliato alla Donald Trump, qualcuno nello partito conservatore ha fatto capire che non era personaggio gradito. Trombatura descritta in stile inglese: “Dopo essermi consultato con i colleghi e considerate le circostanze in Parlamento sono arrivato alla conclusione che il nuovo leader non posso essere io”.
Boris scappa, e altri auto candidati si assiepano in anticamera, i più di loro per auto promozione pubblicitaria senza essere realmente in corsa. Cinque i candidati conservatori per la successione a David Cameron. Accanto alla ministra dell’interno Theresa May -considerata l’erede spirituale della Lady di ferro Margaret Thatcher- il ministro della giustizia Michael Gove, i ministri Andrea Leadsom e Stephen Crabb e l’ex ministro Liam Fox. La principale sorpresa è la candidatura di Gove, che si pensava sostenesse Boris Johnson, e la decisione dello stesso Johnson di non candidarsi. Sia Crabb sia May, i due favoriti, si sono impegnati a non rovesciare l’esito referendario.
Candidati alla furberia. Theresa May ha promesso che non convocherà elezioni politiche fino al 2020, che “Brexit significa Brexit”, ma che andranno difesi gli accordi commerciali britannici nel mercato unico. Quindi menare per il naso l’Ue vilipesa per tutto il 2016 prima di attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona per formalizzare il divorzio dall’Ue. Intanto la Commissione Ue confessa l’inghippo istituzionale: è soltanto il Paese in fuga che può chiedere l’art.50 che è unico modo di uscita dall’Ue. Follia istituzionale per cui solo il fedifrago può chiedere il divorzio.