
Agli inizi del XX secolo l’impero turco attraversava una crisi profonda che durava da molto tempo. I diversi tentativi di modernizzazione e trasformazione all’occidentale iniziati mezzo secolo prima erano falliti soprattutto per la mancanza di risorse ed investimenti. Costruire un ponte, una strada o una qualsiasi altra opera pubblica richiedeva denaro e per procurarselo di solito si innalzavano le tasse. Quando la pressione fiscale diventava insostenibile allora scoppiava una rivolta locale che era prontamente repressa, senza cambiare per questo la situazione. Non sempre però le rivolte scoppiavano solo per questi motivi: ne esplosero anche nelle città prive di generi alimentari o tra interi reggimenti di soldati rimasti senza paga. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le rivolte però cominciarono a mutare natura: divennero politiche e iniziarono a reclamare riforme – se non la stessa indipendenza – e nell’arco di mezzo secolo i Balcani andarono perduti.
Nel frattempo, non essendo intervenuti mutamenti di fondo, la situazione complessiva peggiorò ed il debito pubblico dell’impero ottomano schizzò alle stelle, tanto che per controllare i pagamenti degli interessi alle banche europee fu anche istituita una commissione esterna per vigilare sui versamenti. Fu a questo punto che sorse un movimento ottomano di matrice europea e liberale che iniziò a rivendicare la monarchia costituzionale, una legislazione uguale per tutti – priva cioè delle eccezioni e dei privilegi su base etnica o religiosa – e un sistema di istruzione aperta. In estrema sintesi, il programma dei «Giovanni Turchi» era insomma liberale e progressista, di ispirazione e cultura europea occidentale. Poiché la classe dirigente ottomana aveva sempre assimilato dall’esterno si potrebbe anche dire in realtà che i «Giovani Turchi» non fossero nemmeno tali in senso stretto perché vi furono esponenti del movimento di origine bulgara, tartara, curda, persiana o anche ebraica e armena.
Il punto da chiarire è come mai il governo retto dai «Giovani turchi» – all’inizio europeizzanti, colti, cosmopoliti e modernizzatori – abbia perpetrato il primo genocidio del secolo più violento della storia. Una prima spiegazione farebbe ricadere la colpa sul nazionalismo estremo e l’autoritarismo che avrebbero pervaso il movimento, soprattutto dopo l’annessione della Bosnia all’impero d’Austria nel 1908: in pratica, nel passaggio dall’impero cosmopolita allo stato turco, per le minoranze le cose peggiorarono. Uno stato-nazione non poteva concedere ad entità diverse un minimo livello di autonomia senza mettere in discussione il suo potere centrale. Si aggiunga che dai Balcani (dopo le guerre balcaniche) e dal Caucaso erano arrivate in Turchia ondate di ex sudditi ottomani profughi che erano state semplicemente reinsediate d’autorità in province turche provocando tensioni e disordini. Lo scoppio della Prima Guerra mondiale fece il resto, perché un paese in guerra non poteva tollerare dissensi di alcun tipo.
Quando infine dopo la guerra scomparve del tutto l’impero e rimase la sola Turchia, per dare maggior vigore alla spinta modernizzatrice e legittimare il nuovo stato, un richiamo ai «Giovani turchi» divenne inevitabile. Ataturk riconobbe le radici della modernità del dopoguerra nell’esperienza politica del movimento di rinnovamento e il genocidio fu semplicemente taciuto. La Turchia attuale era diventata intanto un paese sostanzialmente mono etnico, soprattutto dopo che nel 1923 il trattato di Losanna aveva sancito lo scambio delle popolazioni tra Grecia e Turchia, quando altri milioni di profughi attraversarono il mar Nero in direzioni opposte. La modernità di oggi ha insomma un lato molto oscuro, nascosto in un’autoritaria e nazionalista ambiguità di fondo che dura almeno da cento anni.