
Strano destino quello di Marco Pannella: una vita consumata a combattere in autonomia e una morte finita in ostaggio della retorica e di un unanimismo giulebboso.
Per quello che è stato, che ha fatto ed ha rappresentato, meritava di più in vita e un diverso rispetto dopo morto.
C’è un eccesso di sopraffazione sulla memoria in questo celebrare senza pudore virtù obsolete, amicizie scomparse da tempo, adesioni altalenanti e improvvisamente recuperate come se l’assenza dell’interessato giustificasse oggi un perdono tombale di colpe, incomprensioni e combattimenti anche feroci.
La morte, si dice, consegna ogni cosa alla memoria; più propriamente, forse, apre al sabotaggio dei ricordi, alla loro assoluzione per mancanza di contraddittorio. E offre un palco insperato alle anime belle che non si vergognano delle loro contraddizioni quando c’è un’occasione per ricomparire.
Non credo che Pannella avrebbe gradito quel cerimoniale che detestava in vita, solo perché a chi viene meno è dovuto l’onore delle armi anche da parte di chi lo ha sempre combattuto.
E’ proprio così difficile per noi essere dignitosi, magari anche nel dissenso o semplicemente nel riconoscimento per esserci sbagliati?
La morte richiede discrezione; è l’unico modo per valorizzarla, e con lei la vita che l’ha preceduta.
Quella di Marco Pannella, dopo una vita straordinaria da tanti punti di vista, meritava più meditazione che frastuono.
Anche per la storia, in procinto di diventare tormentone, che richiama il fenomeno dei ricorrenti inciampi religiosi di molti personaggi di rilievo, dovuti più che alle debolezze tardive del loro declino al tempismo di chi un pezzo di paradiso non riesce a negarlo a nessuno.
E’ troppo, per le nostre modeste virtù, chiedere un piccolo supplemento di serietà e di buon senso?
Magari con qualche sommesso mea culpa?