
Pensiero comune è che la guerra sia il regno dell’incertezza, del rischio e dell’indecisione – oltre che del pericolo –, ma nemmeno le conferenze diplomatiche, soprattutto dopo un periodo di lunghi conflitti, sono esenti da critiche, né si svolgono sempre in assoluta tranquillità. Due secoli fa, dopo le guerre della rivoluzione francese e quelle napoleoniche durate una ventina d’anni, nel 1815 a Vienna si tenne il famoso congresso per definire il nuovo assetto dell’Europa e non fu impresa facile, tutt’altro. Nell’atmosfera mondana ed elegante della capitale dell’impero austriaco c’erano un grande paese sconfitto (la Francia) e dei vincitori (tutti gli altri) che cercavano un accordo, o almeno questa era l’espressione diplomatica utilizzata: in realtà tutti tentavano di appropriarsi di qualcosa.
La maggiore e più diffusa aspettativa era un sistema politico nuovo che assicurasse la stabilità all’Europa: ridefinendo territori, confini e sovranità alla fine l’obiettivo fu colto, ma il percorso accidentato e non privo di errori o gravi forzature. La Polonia, che aveva subito già tre spartizioni tra Prussia, Russia e Austria, scomparve fagocitata dall’impero dello zar e ricomparve solo un secolo dopo a Versailles nel 1919. L’espansione russa verso occidente, escludendo una guerra per riprendersi i territori che erano stati occupati, fu semplicemente accettata dalle altre potenze che si precipitarono però a chiedere ‘compensazioni’, ovvero altre annessioni territoriali. La seconda vittima fu allora la Sassonia, il cui re aveva manifestato eccessiva simpatia per Napoleone; alla fine, assegnati alcuni territori sassoni alla Prussia con faticose trattative, la Baviera protestò con la Prussia per una parte della Renania e gli inglesi convinsero l’Hannover ad accettare le condizioni di Berlino.
Nel frattempo, per valutare correttamente i territori che passavano da una sovranità all’altra, fu istituita al di fuori dei negoziati una commissione di statistica il cui compito era la stima dei territori in discussione: non si trattava solo dell’estensione, ma anche del numero di «anime» che vi risiedevano e soprattutto della misura dello sviluppo economico e culturale per attribuire un valore di scambio. Anche Talleyrand – già vescovo prima della rivoluzione francese, poi ministro di Napoleone e in quel momento ministro del nuovo re di Francia – aveva approvato e commentato che un contadino polacco poco evoluto non era la stessa cosa di un istruito contadino renano. Se lo zar insomma non lasciava la Polonia era perché il valore complessivo era relativo, mentre i principi tedeschi si sarebbero contesi territori più piccoli, ma di maggior valore.
A parte le delegazioni ufficiali, che comprendevano pochi ministri e diplomatici, a Vienna furono presenti numerosi altri personaggi con vari incarichi: a parte le malignità su molti che non si fecero accompagnare dalle consorti, l’inglese Castelreagh aveva inserito nel suo seguito il fratellastro e Talleyrand la figlia, che faceva gli onori di casa presso la residenza. Un segno di dissolutezza di costumi? No, semplicemente l’occhiuta polizia austriaca era all’epoca la più efficiente d’Europa nell’aprire la corrispondenza e nel decrittare anche i cifrari più complessi. Le carrozze postali avevano infatti un doppio equipaggio: uno smistava la corrispondenza ordinaria e l’altro apriva i plichi sigillati e ne copiava il contenuto. Era insomma una questione di fiducia …